La musica elettronica è diventata troppo seria?
aka: un po' di dischi belli (ma anche pieni di ansia) che ho ascoltato quest'anno
Togliamoci subito il dente: no.
E allora che c’azzecca ‘sto titolo? Mi spiego meglio.
La questione “serietà” applicata alla musica elettronica (prendiamo la definizione alla larghissima, vi prego) è da vedere—credo—come qualcosa di già implicito alla sua stessa natura (e di tutte le sue micro e macro varianti, oltretutto), da quando si è cominciata a sperimentare e affermare come genere musicale. Cioè, Pierre Schaeffer non veniva sicuramente visto come la persona più scialla della storia (nonostante la storia l’avrebbe poi fatta), quando a metà dello scorso secolo fondava una cosetta come il Groupe de Recherche de Musique Concrète, né i Kraftwerk suscitavano grande normalità, una ventina di anni abbondanti dopo. Semmai stupore, curiosità, sorpresa: «Da dove saltano fuori questi? Che stanno a fa’ con tutte quelle macchinette, perché si comportano da robot?»1.
Di esempi da fare ce ne sarebbero a bizzeffe, tipo Suzanne Ciani che nel 1980 cerca di spiegare ad un David Letterman particolarmente diffidente come funziona un synth—e ripetendo più volte che sì, con quello ci guadagna da campare—in diretta televisiva e tra lo scetticismo generale del pubblico in studio, e grosso modo continuerebbero su questa strada. Da noi a questo genere di siparietti ci aveva pensato Corrado (proprio con la band di Düsseldorf), e più tardi Mike Bongiorno coi Depeche Mode: poesia.
Comunque: questo discorso vale se non altro per quanto concerne un certo tipo, di musica elettronica, ovvero quella che cambia un po’ le regole e va oltre i canoni stessi delle sue possibilità. Perché fa parte di un mondo che nasce diversamente accessibile, quasi mai leggibile a primo acchito e fatto di logiche profondamente più complesse di quanto le cose più conosciute solitamente mostrano in superficie. E proprio per questo in alcuni casi, condizionata da epoche che suscitano particolari cambiamenti culturali, l’impatto e la spinta che ha la sperimentazione (per tenerci su una definizione sempre molto larga, ché ha molto più senso), è anche un enorme e consapevole specchio di pensieri, idee e suggestioni che ci raccontano davvero da dentro.
Quindi, al contrario, la storia continua a dirci che probabilmente è musica che non viene mai presa (troppo) sul serio, o non abbastanza per ciò che riesce a raccontare del qui e ora delle cose. L’argomento centrale—se lo mettiamo nella prospettiva dell’anno appena trascorso—va proprio in questa direzione: nel 2022 non sono usciti dischi che hanno fatto scalpore né musica di cui si è parlato così tanto, specie su lidi più generalisti (come poteva essere il caso della collaborazione Floating Points & Pharoah Sanders o il secondo lavoro dei Bicep uscito lo scorso anno, di cui avevo scritto qui proprio per analizzare il grande dibattito generato anche su stampa non prettamente specializzata). E questo forse perché una regola non scritta è sembrato di intravederla, tra chi ha proposto cose “nuove” continuando la tradizione di sperimentazione silente, seriosa, di quell’elettronica che matura consapevolezze indagatrici: è nata sempre più musica che trasmette l’ansia del presente che viviamo, e con cui abbiamo imparato a convivere soprattutto lontano da un club.
È quindi nata musica che spesso non viene considerata perché difficile da inquadrare, ma che riflette ancora di più le emozioni e le introspezioni contemporanee, tra logiche che innestano colori bui e incerti, a volte in maniera volutamente poco accessibile ma quasi sempre trasmettendo qualcosa di dannatamente sincero.
Nella nebbia britannica
In Angels Pharmacy (da Karma & Desire di Actress, del 2020), Zsela intonava «destiny is stuck in heaven blowing nitro» su un tappeto ambient-techno tetro e sinistro, che potrebbe già riassumere qui tutta la questione di cui sopra (e poteva farlo con un po’ di anticipo). Il ritorno del dj e produttore originario di Wolverhampton racconta in Dummy Corporation di un club ancora disperso da qualche parte in una folta foschia notturna, e da cui risuonano solo vaghissimi accenni di melodia di reminiscenze rave, facendo sostanzialmente il palio al lavoro che Kelly Lee Owens ha portato avanti nel suo LP.8. L’artista Gallese ha pensato ad un racconto di paesaggi piuttosto simili, intrecciato ad una sperimentazione di ritmiche scure, tra giochi di voce in spazi subordinati al silenzio. La techno dispersa nell’addensarsi di una nebbia avvolgente, il beat che non ha vere regole o grammatica, né forse ricordi della sua originaria natura. Non sono gli unici due episodi che dalle parti di Londra disegnano scenari di questa tipologia e si ambientano in simili territori, ma ci arriviamo tra un attimo.
Rimorso e apocalisse
Se parliamo di spettralità ritmiche e melodie sinistre non si può non citare il nostro Mai Mai Mai, tornato quest’anno con Rimorso, ritratto di viandanza occulta tra riti e cultura del profondo sud. Lui stesso, in un’intervista uscita qui qualche tempo fa, mi raccontava che si tratta di un disco infestato da spiriti della memoria, che sono però anche racconto «di un folklore e un vissuto condiviso nel presente». In parole povere, Rimorso sembra ripensare il passato ritraendo il contemporaneo inconscio collettivo, e anche in questo caso per mezzo di pastelli scuri e un tuffo negli abissi post-club.
Quanto ad un altro (atteso) ritorno, per i Moderat si è trattato di riprendere in mano un progetto dato apparentemente per concluso qualche anno fa, tornato sì a calcare la mano su alcuni stilemi con cui il trio era arrivato al grande pubblico, ma contorcendosi in un racconto stavolta parecchio più agitato (e per questo, guarda caso, considerato decisamente meno dalla stampa). MORE D4TA, come commentavo da queste parti poco dopo l’uscita, è di fatto «il suono di un brusco risveglio mentre fuori c’è l’apocalisse, è la voglia di capire come trasferire in musica un bagliore che trasmette tensione, la paura e l’angoscia di raccontare il buio. E funziona alla perfezione, ovvero come una testimonianza in tempo reale di ciò che le nostre vite sono sembrate, negli ultimi anni, se le immaginassimo viste da fuori, dentro un container in vetro che emette il suono di emozioni tetre sempre più a ridosso delle nostre orecchie».
Il linguaggio del collasso
Per descrivere l’impatto che ha in questa discussione uno dei dischi più sorprendenti dell’anno, basterebbe citare la review di Pitchfork, nelle parole di Eric Torres: «Pripyat prende il nome da una città dell'Ucraina settentrionale che fu abbandonata dopo il disastro di Chernobyl nel 1986, oggi villaggio fantasma ricoperto di alberi, fiori e arbusti. È un'immagine suggestiva, inquietante e sorprendentemente adatta alla vita post-umana, che ben si abbina alla musica polimorfa della Herlop. Pripyat dà forma a un mondo futuro, dove il linguaggio non è necessario per stabilire connessioni profonde con la terra e con gli altri».
La Catalana Marina Herlop, proseguendo su questa scia di narrazioni elettroniche che parlano di un presente disabitato da certezze, ha anche dei punti in comune con l’alfabeto del sovrannaturale con cui si esprime il duo Francese composto da Guillaume Grosso e Jeremy Duval, Principles of Geometry. Il linguaggio con cui hanno immaginato ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ ci ricorda che sì, i Boards of Canada sono esistiti e hanno lasciato evidenti segni del loro passaggio (e che forse sono ancora tra noi, da qualche parte a scrivere un prossimo capitolo che in questa lista ci entrerebbe sicuramente), e anche che il presagio di Tomorrow’s Harvest, e di quelle ceneri fantasmatiche del domani, è diventato sempre più simile a qualcosa che possiamo toccare già oggi.
Hauntology al presente
Lo zeitgeist socio-musicologico2 che coinvolse la discussione sull’hauntology, «la nostalgia per il futuro perduto» che tanto aveva acceso il dibattito su un certo tipo di musica venuta fuori dalla metà degli anni Dieci (tra Mark Fisher e Simon Reynolds, in particolare) e che aveva messo al centro della mappa una certa paura di aver perso la possibilità di liberarsi del passato vedendo svanire il futuro mentre accadeva, nell’elettronica contemporanea, è tutto sommato rimasto argomento invariato—grosso modo—anche in molte nicchie di simile stampo che ancora ascoltiamo oggi. Succede ad esempio in The Long Count della messicano-statunitense Debit, che ricreando i suoni dell'antica storia musicale dei Maya, come spiega Zoë Beery su Resident Advisor, genera un effetto «ossessionante e hauntologico, utilizzando il passato per evocare un futuro irrealizzato, in cui l'arte Maya originale è sopravvissuta come qualcosa di più di semplici frammenti. Non è solo uno scavo nella memoria, ma canta con nuove idee capaci di espandere la musica ambient ben oltre ciò a cui siamo abituati».
E se per alcuni artisti ciò funziona come etichetta e paradossale déjà vu delle possibilità, però, per altri è diventato (anche) esplorazione di terze vie: Plonk, terzo album di Brian Leeds con l’alias Huerco S., è opera piuttosto indecifrabile con l’uso di vocabolari standard, perché di fatto si libera da una definizione stretta di hauntology per innovarla al presente, e che nel mezzo combina un po’ di tutto. Tra ambient, decostruzioni di derive hip-hop moderne che diventano noise e geometrie elettroniche funambole, è un sunto proto-futurista o proto-post-club che nel suo abito trasformista ha l’intento di azzerare le certezze. E se non bastasse, come recita il comunicato stampa, «riflette il mesto bagliore di sodio delle città di notte, angoli di strada che si illuminano con dolorosi momenti di chiarezza che vorresti sparissero». Suona familiare?
Freddo elettronico
«C’è un’energia creativa particolare, decisamente. E secondo me è quasi (e anche) una questione di sopravvivenza, strettamente legata alle sensazioni che provi qui. Penso banalmente al grigiume del cielo—che è una delle tonalità che sicuramente vedrai di più, se vivi in questi luoghi—, una cosa che paradossalmente aiuta e stimola a farti vedere qualcosa che abbia dei colori opposti, con le sfumature più peculiari possibili», mi raccontava Maria Chiara Argirò qualche settimana dopo l’uscita del suo Forest City. Come anticipato per Actress e Kelly Lee Owens, si tratta di un altro episodio che si aggroviglia nelle sensazioni che Londra scatena, cioè in scorci spesso esattamente a metà tra il desertico silenzio della periferia e i rumori del melting pot cittadino che risucchia le giornate.
La sua è anche un’altra prova che conferma un’evoluzione importante dell’elettronica contemporanea, che sembra poter accettare il passato nel tentativo di trasformarlo: tra l’astrattezza radioheiana di Kid A e l’eleganza di stampo jazz (dai cui studi Maria Chiara proviene), è il racconto di ciò che sta emergendo a longitudini fredde ma sempre fucina di idee spiazzanti, decise. Come d’altronde conferma l’operato di Loraine James—guarda caso di Enfield, sobborgo a nord della capitale Britannica—, nei suoi Building Something Beautiful For Me e Whatever the Weather (quest’ultimo sotto alias Whatever the Weather, come il titolo dell’album) e persino nell’EP 053, prodotto a quattro mani con TSVI. Tre dischi che hanno il pregio di cullarti e in qualche modo intimorirti, allo stesso tempo, ed in cui la James attraversa sentieri su cui si impongono cieli blu acre e melodie eteree, trascinati in un posto immaginario di cui non abbiamo memoria al risveglio.
Color catastrofe
Se quest’argomento potesse avere un manifesto da appendere, qua fuori all’ingresso di quest’articolo, sarebbero gli otto brani inclusi nei due EP che Burial ha pubblicato quest’anno: Antidawn e Streetlands. Poco fa parlavamo di hauntology, qualche anno fa parlavamo di fantasmi dei rave passati, a questo giro William Bevan—che in questi discorsi c'entrava più o meno sempre—ha sgomberato il campo da equivoci, minimizzando tutto all'estremo (pur massimalizzando le critiche attorno a questo suo ipotetico “nuovo corso”: qualcuno non lo capisce più, qualcun'altro parla di parentesi vaga e poco ispirata). Ma la verità, in linea col tema principale, è che l'artista di Croydon «gioca da sempre a scacchi con la dimensione del tempo, e in quest’occasione sembra voler assecondare il suo naturale e incerto decorso. Rimanendo fedele al suo percorso, ha scelto di fare evolvere la musica elettronica attraverso una lunga conversazione con spettri che non arrivano più dal passato e che non sono un miraggio del futuro: […] sono il racconto di uno sgomento e concitato presente»3.
I due EP (dalla durata, effettivamente, di due album), sono pensati per spogliarsi da qualsiasi sfondo compositivo vero e proprio, lasciando spazio solo a una cruda evoluzione di texture vaporose e immersioni nel buio. Non c'è una vera cornice e non c'è possibilità di interagire con qualcos’altro che non siano voci distanti che brancolano nell’oscurità, sample spettrali e non precisati personaggi che si districano tra labirintiche e angoscianti radure notturne, raccontando le loro ansie in maniera sempre diversa. Fuori, nient'altro che un cielo color catatrofe. A conferma che sì, «siamo di fronte alla sua trasposizione della vita qui e ora, in una descrizione di un paesaggio invernale dove sembra non sia rimasta traccia d’umanità e in cui lo stesso Burial è intento a vagare in cerca di salvezza da un mondo svuotato di anime»4.
La musica elettronica non è diventata troppo seria.
È diventata fedele ritratto di un presente che cerca di scappare da sé stesso.
Potrebbe non essere un dialogo realmente accaduto, ma insomma: hai capito.
Non sono davvero sicuro ‘sta parola esista, forgive me if that’s the case.
G. Coppola, Burial racconta il presente, e fa paura, Rolling Stone Italia, 2022.
Ibid.
Bel numero questa newsletter. Grazie, ci sono alcune segnalazioni che meritano.
Per quanto mi riguarda l'uscita di ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ mi ha stupito, come dici tu sonorità alla Boards of Canada che affascinano e ti riportano a mondi lontani grazie ai suoni morbidi, ma allo stesso tempo un po' distopici per la ritmica sincopata. Un piccolo capolavoro.
Grazie!