Svegliarsi durante l'apocalisse
Angoscia, distopia digitale e cupi deserti elettronici: il ritorno dei Moderat fa da colonna sonora perfetta al presente
«Sono passati 15 anni da quando Apparat e Modeselektor diventarono un corpo unico, riuscendo a concepire un linguaggio che si sarebbe posto come riferimento della techno berlinese prima, di quella europea e mondiale dopo. Se c’è qualcosa che abbiamo imparato, dopo aver visto l’era Moderat imperversare e fiorire in modo così naturale, è che la loro musica ha cristallizzato un’immagine ben precisa dell’elettronica del nuovo millennio».
Cito in apertura un mio pezzo uscito nel 2017 su Noisey, quando i Moderat avevano deciso di prendersi una (indefinita) pausa dalle scene dopo—appunto—quindici anni in giro e con un progetto diventato ormai grande, perché la prospettiva delle cose (adesso che di anni ne sono passati venti) è praticamente stata la sintesi del progetto, da sempre. Un progetto che nel frattempo, tra tour sempre più grossi e tre album all’attivo, è diventato probabilmente una creatura molto più grande delle loro aspettative di partenza.
Ma la lezione che abbiamo imparato, molto semplicemente, è che questa lunga evoluzione è stata netta, nitida, verso la dimensione pop (intesa come “popolare”, “di qualcosa di molto conosciuto”), pur facendo percorsi che di fatto hanno avuto dentro insita la natura di sperimentale. Per Sascha Ring, Gernot Bronsert e Sebastian Szarzy, che apparentemente non hanno mai davvero scelto una strada ma se la sono costruita con le loro idee in studio, album dopo album, decidere di finire Moderat e poi ricominciare è parso in fin dei conti la cosa più naturale, quasi semplice da fare.
E come l’hanno fatto? Con un disco che è tutt’altro che semplice, ovviamente. E che dopo l’accelerata ormai quasi definitiva verso la forma–canzone di III (pur infarcita di elettronica e un linguaggio non sempre esattamente da classifica, certo, ma con una grammatica che stava andando a sbirciare pesantemente a quei confini) hanno rimesso mano a tutto: MORE D4TA è un disco molto freddo nel suono e nella tempra, ma è forse, paradossalmente, il più caldo—della loro carriera—dal punto di vista emotivo (ed evocativo).
Il che ci dice (e chiarisce) molto della sua genesi, differentemente dai precedenti capitoli: se la notorietà di Moderat (2009) e il logico (ma più solido e articolato) continuum II (2013) aveva fatto maturare il loro status attraverso una formula ben precisa, cristallizzandosi con III nel 2017, il quarto album è il suono di un brusco risveglio mentre fuori c’è l’apocalisse, è la voglia di capire come trasferire in musica un bagliore che trasmette tensione, la paura e l’angoscia di raccontare il buio. E funziona alla perfezione, ovvero come una testimonianza in tempo reale di ciò che le nostre vite sono sembrate, negli ultimi anni, se le immaginassimo viste da fuori, dentro un container in vetro che emette il suono di emozioni tetre sempre più a ridosso delle nostre orecchie.
Sì, così mi sono immaginato accadesse tutto quello che succede dentro l’album. Forse too much, forse ci sta perfettamente.
Quanto a loro, che hanno pensato di fare un reset da molte astrazioni classiche viste fin qui, vien fuori (e a fondo) che mettersi in gioco con le idee giuste—e farlo con idee vere—traduce questi 45 minuti in un nuovo manifesto della loro maturità: la sincerità di MORE D4TA diventa palese quando ti accorgi che ogni traccia regge da sé con un contesto e una personalità quasi tendenziosa, ingombrante. Ma appunto, perché riesce a entrarti dentro pungendo, con immagini forti e riferimenti onirici mentre si è perfettamente svegli: è un sonno contraffatto da tempi in cui il risveglio è così cupo e maldestro per essere la via da preferire.
Ci sono delle idee concettualmente parecchio simili a III (che peraltro all’epoca mi piacque molto a differenza di una stampa un po’ tiepida), ma, ecco, qui sembra di vederle in 3D: è tutto più complesso ma respira meglio (o forse, semplicemente, diverso in modo giusto rispetto al passato). È cambiato molto intorno a noi, è cambiata anche la loro intenzione di descriverlo, attraverso un’indagine che ci porta su ritmiche lente, poi veloci, poi lentissime, poi velocissime, ad evocare deserti di turbamento, movimento sconnesso, agitazione.
Le tracce più Moderat—o associabili al loro percorso—risulteranno forse MORE LOVE e COPY COPY (ma anche qui ho delle riserve: ci sono comunque e ancora elementi nuovi, diversi, interessanti). Nel caso della prima, la sua genesi ha anche una storia che scava negli emblemi dell’arte: è ispirata in parte alla Venere di Botticelli—più precisamente a una delle “sorelle” dell’opera— custodita alla Gemäldegalerie di Berlino, luogo che Sascha Ring ha visitato negli ultimi anni e che ha catturato buona parte dell’intensità e del carattere dei brani in MORE D4TA.
E devo ammettere che a livello di suono, con Apparat che sembra volto a sperimentare di più (e tenendosi anche abbastanza dietro nella parte vocale rispetto ai precedenti capitoli), si sente dentro la voglia di capire altri mondi, esplorarli con grande enfasi: FAST LAND e DRUM GLOW ti immergono in un oscuro abisso di cupi sortilegi aritmici à la Burial, amplificano le particolarità di un sodalizio—quello tra la follia senziente dei Modeselektor e l’eleganza energica di Apparat—che ha deciso come controllare le emozioni all’interno della sua musica, muoverle ancora di più e muoverle verso distanze inedite.
Pur dando l’impressione che tanto si è trasformato nel loro precisissimo (e cercato) caos di ispirazioni, probabilmente MORE D4TA ci sembrerà tra qualche anno l’album più facile da sintetizzare per descriverli. Tra le sue linee corpose che emanano distopia digitale, la lotta con i sentimenti di isolamento e il sovraccarico di informazioni, tutte le oscillazioni di cui il disco si nutre sono una penitenza autoinflitta che vuole arrivare fuori, dall’altro lato, come monito: «more data, less future», sembra istintivo poter estorcere dall’ascolto del disco.
E allora sì, possiamo dire che non siamo più di fronte ad «un’immagine ben precisa dell’elettronica del nuovo millennio», insomma—il che non era affatto poco, di per sé—, ma ad un’espressione che potrà e saprà muoversi ben oltre i territori abituali, convenzionali, della stessa. Come in UNDO REDO e subito dopo in NEON RATS, ci sentiamo smossi tra vigore e necessità, con i sintomi di preveggenza per qualcosa che sta per esplodere inavvertitamente.
In realtà, è tutto molto reale ed è tutto molto palpabile, nitido rispetto all’accecante buio che i lunghi pattern di sintetizzatore sembrano voler comunicare e la voce di Ring mira a trasmettere: stiamo vedendo il presente, ed è fatto di tutti questi strati di incertezza.
Per fortuna, nel caso dei Moderat, un’incertezza che suona follemente bene.
MORE D4TA è uscito il 13 Maggio su Monkeytown Records.
Se non metti L’Ultimo
Come sempre, qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter.
E anche oggi in versione XXL.
(un botto di) Cose che ho ascoltato recentemente
Letteralmente, in ordine sparso.
Oggi con la collaborazione di Giulia Massara, contributor tra gli altri di Parkett Channel, 1977 magazine e Auralcrave, che a parte NAVA ha curato la scrittura di 4/5 delle uscite qui sotto.
Classe ‘88 di origini gallesi, Kelly Lee Owens è sicuramente una dea dell’elettronica contemporanea: abile educatrice alla seduzione dell’ascolto e con una carriera attiva dal 2017 (con l’omonimo disco di debutto prima e poi Inner Song, nel 2019), a fine Marzo l’artista aveva annunciato l’uscita del suo terzo album LP.8, appena pubblicato in collaborazione con l’eclettico norvegese Lasse Marhaug e la sua noise di stampo meditativo.
Ed è un album che non sconfessa l’innata ricerca della Owens volta all’eleganza: si presenta asciutto ed essenziale, con armonie che si adagiano con delicatezza su una cura precisa e robusta verso ogni dettaglio. Il suo terzo capitolo apre ad una tempesta sensitiva, ad una classicità sofisticata, ad una perfezione che non lascia spazio ad alcuna sbavatura, lineare, lucida nella sonorità. Luci ed ombre in una simmetria compiuta, pacata esaltazione di un io che sembra mostrarsi, quasi prepotentemente, in tutta la sua conquistata maturità—a battezzare una nuova consapevole personalità, sbocciata dopo aver abbandonando quel filo introspettivo che ha accompagnato i primi due album a silenzi ballabili e palpabili.
S.O (2), in quattro minuti di immersioni e rinascite, è una lunga corsa tra natura ed esplorazioni psichiche ridotte ad una sistematicità tecnica impeccabile; un grido che non urla, disponendo dolcemente la voce umana ad una sensazione di primigenia sorpresa verso mondi inanimati e animati in bianco e nero, negli innumerevoli dettagli che non confondono ma tratteggiano in modo chiaro ogni lineamento. Nana Piano, in una Domenica qualsiasi di un’infanzia nelle campagne gallesi, rallenta e cammina al passo di un ricordo, un paesaggio che asseconda una melodia che, a sua volta, riecheggia la nostalgia della felicità: un prato ed una corda sospesa tra il desiderio di una bimba descritta dalla donna di oggi. Con One tutto torna, tutto si chiude in un cerchio che ha un’origine ed una fine, causa ed effetto, razionalità e mistero: l’ascolto si costruisce con l’ascolto. Un percorso che si crea e si disfa, un presente che travolge l’attimo fuggitivo dell’esistenza.
LP.8 è un processo istantaneo, una fotografia in movimento, una traversata dispersa da un’onda eterea, che abbraccia e stritola un canale per poi aprirsi all’ossigeno vitale. È un album in cui emerge l’emergenza, affiora un rifiuto al vissuto e un invito a vivere; un cambio d’abiti continuo in 9 brani per indossare il desiderio, le allucinazioni, i luoghi e gli spazi. Rintocchi spezzati da dinamismi metallici che si alternano ad un’austera dolcezza.
— Giulia Massara
Figlia di immigrati ucraini trasferiti ad Caracas, Oksana Linde è sicuramente una delle pioniere della musica elettronica tinta di rosa. Compagna di merenda di Suzanne Ciani, a ben 74 anni l’artista debutta—quasi quarant’anni dopo gli esordi in studio—con Aquatic and Other Worlds, pubblicato da Buh Records.
L’album contiene infatti una curata selezione dei lavori dell’artista a partire dal 1983 fino al 1989, concedendo, a chi ascolta, la sensazione di trovarsi in un vecchio shop a rovistare vinili: è la perfetta conclusione artistica di chi ha materializzato la musica rendendola percettiva, come fosse una proiezione cinematografica, immersa sott’acqua scoprendo un mondo che si intrattiene battendo un tempo diverso. Un trasporto verso una dimensione celestiale, una poesia che si stende su una pagina bianca, accompagnata magistralmente dall’accordo sinfonico di un suono progressivo.
La continua sovrapposizione di sonorità curve si adagia tra ricezioni emozionali, sedotte dalla perfezione del tutto simili alla logica stilistica di un concerto classico; il suono che diviene un unico arpeggio e la singolarità di moltitudini lineari disegnano i contorni di uno stile senza tempo. Creatrice di un genere ipnotico, tra psichedelia e classicismi di un’elettronica accademica, Oksana Linde fa rivivere nel futuro la storia di (altri) mondi acquatici, sintetizzatori e archivi narrativi cinematici.
— Giulia Massara
In fārsī—la lingua persiana—nafas significa “respiro”, quello che soffia deciso dai brani del nuovo EP di NAVA, in cui l’italo–persiana fonde le sue origini tra sguardi e sentimenti, tra radici e futuro. Uscito su Oyez!, Nafas sarà il primo capitolo di una trilogia comunicante, in cui i colori di Teheran si connettono all’avant–pop europeo, guidato da una vena esploratrice qui ancora più energica che in passato—oltre che dagli ottimi contributi in produzione di Bawrut, GIUMO e 555n. Tra le onde del Mediterraneo mosse con sempre più energia dentro un club, per Nava Golchini si tratta dell’evoluzione più interessante dopo Sarabe, uscito due anni fa.
La torinese Flaminia Gallo in arte FLAMINIA ha da poco pubblicato Komorebi, la prima prova in italiano per la cantautrice piemontese—dopo gli esordi in inglese. Figlia d’arte cresciuta tra soul–jazz e funk, pur attraversando l’oceano e toccando il nord Europa è rimasta legata alla terra d’origine: quella di FLAMINIA sembra una voce conosciuta, abituata a scaldare i club con atmosfere live. La sua anima è una commistione di ritmi jazz, una concreta corrispondenza tra immaginazione fiabesca e una natura mentale in fiore che intreccia meravigliosi percorsi sensitivi.
Komorebi riprende una parola giapponese che non trova una traduzione in italiano; sembra essere la rappresentazione concettuale di una fluidità mentale impregnata di elementi naturali organizzati quasi come all’interno di un ingranaggio meccanico. È un riflesso filtrato di una, tante luci che si stendono sul prato nelle ore più miti, un’alba che non dimentica i colori del tramonto ma cerca riposo, levità, lontananza da ciò che è stato. Virginia è il brano–pilota tra i sei; in perfetta sincronia tra una voce pulita e l’elettronica di Paolo Caruccio—alias Fractae, produttore dell’EP—, un “dialogo” eufonico animato da suoni contrastanti perfettamente incastonati tra di loro. Un EP che rinasce con i colori della primavera, con ballad innescate tra fioriture e colori pastello e ritmi sensuali che si posano su curve e morbidezze ben definite.
— Giulia Massara
Al debutto con 265sex, Michele Sterchele e Tommaso Dell’Anna sono becauseimreal—progetto riuscitissimo uscito su Record Union. L’EP asseconda e stuzzica chi della musica ha fatto un bisogno, la ricerca che li veste quasi come nuovi illuminati: flusso ed energia, un risveglio che si abbandona ad una lieta maestranza di suoni realizzati per accompagnare, senza interferire ma riscuotendo un’attenzione che con naturalezza viene facilitata.
Il brano oklama è da eleggersi come massima rappresentazione di una prima esperienza che non ammette però la possibilità di cadute e delusioni delle prime volte; è uno spazio di esercitazione tra due artisti che sembrano aver studiato contrasti e insieme stonature di un’elettronica in grado di rendere il suono essenziale, quanto perfetto. Un approccio che non distingue la realtà della notte dal bagliore del giorno, passaggio di immagini sfocate che la luce deforma senza analizzarle mentre il buio perfeziona, come un disordine ecletticamente intuitivo e visionario.
265sex è un abbraccio tra sonorità antropiche e accurate scelte stilistiche: Milano dietro le quinte, svelata e sbugiardata da una lenta ripresa; la città perfetta che “cade” dinanzi l’uomo e che si arrende all’imprevedibile di un’epoca che la invoca continuamente su un podio.
— Giulia Massara