Maria Chiara Argirò, musica vera per luoghi immaginari
Il suo 'Forest City' è tra i migliori progetti dell'anno, oltre che una sintesi di coraggio e nuove (non) definizioni
Poco più di una settimana fa ospite di una Worldwide FM Session nel basement di Gilles Peterson e pochi giorni dopo dentro una lista di must-listen album di Pitchfork, tra Arcade Fire e Sharon Van Etten, Maria Chiara Argirò è piombata con una naturalezza disarmante nei radar di penne influenti, nomi di punta e addetti ai lavori di mezzo mondo.
Forest City, l’album—appena uscito—di cui si comincia a parlare tanto e bene, non è però (affatto) il suo debutto: con una carriera accademica tra pianoforte, coro e studi jazzistici a Roma, un decennio di esperienze tra collaborazioni e nuove sperimentazioni a Londra—dove si è trasferita nel 2011, evolvendo il suo percorso—e la determinazione sempre in valigia, il suo storico parla già di quattro album all’attivo, collaborazioni e tour con These New Puritans, Kinkajous e Jamie Leeming (con cui nel 2020 ha prodotto uno degli album dell’anno per The Guardian, Flow).
«Avevo già provato alcuni brani di Forest City come support di Emma-Jean Thackray, con la mia band, e continueremo per altre date in UK», mi dice. «Chiaramente l’esperienza di poterlo suonare da Gilles, in video e per la prima volta è stata un’emozione diversa, intensa. E poi lavoro molto bene sotto pressione, riesco a scaricare l’adrenalina sulla musica. È stato molto bello».
Fa un po’ sorridere, comunque, che tu venga ancora accostata molto al mondo del jazz. Per via dei tuoi studi e della tua carriera fin qui, certo. Ma questo disco, parliamoci chiaro, tutto è tranne che jazz—qualsiasi cosa significhi jazz, a questo punto e dopo tutte le influenze che il genere ha assorbito nella storia.
Volevo provocare proprio quell’effetto, sfilarmi da una definizione di genere. Forse armonicamente sì, molte cose “jazz”, negli arrangiamenti, riesco ancora a sentirle. Ma anche gli elementi più strettamente riconoscibili, come la tromba, sono utilizzati e poi post-prodotti diversamente, a volte trasformandosi in un synth e altre comparendo in maniera marginale, quasi come nell’ambient. Il rischio, altrimenti, sarebbe stato far succedere la cosa più scontata e quindi suscitare la reazione più scontata, quella che volevo categoricamente evitare. Del tipo: «ecco qua la tromba, ora parte l’assolo»—e altri tipici cliché degli strumenti associati a quel mondo.
E mi sembra si senta, hai messo tutti i passaggi del tuo percorso in gioco per fare un bel reset. Non è qualcosa che sperimenta per sperimentare, insomma.
Esatto, il risultato credo sia stato una terza via: il passato è dentro qualcosa che adesso sento ancora più mio, ma nel presente. La mia prerogativa in fondo è sempre stata quella di sfruttare i grandi insegnamenti che questo linguaggio riesce a darti per poi far evolvere le idee attraverso altri stimoli. Non mi sono mai posta quei limiti in cui lo studio accademico può spesso farti rifugiare.
Del resto The Fader, introducendo il tuo singolo Bonsai, ti aveva taggato sotto “club”, “electronic”, “experimental”. In quel caso il fatto non conoscessero il tuo background li avrà aiutati a reagire alla musica con la mente più aperta.
Sì, e mi va assolutamente bene che l’album sia percepito così. È importante che la dualità tra quello che ho fatto e quello che farò possa creare spazi, mondi diversi. Nella mia musica in primis, oltre che poi in chi ascolta. Sono in una nuova fase della mia carriera e voglio improvvisare, vedere cosa succede sperimentando con un approccio diverso.
E per la cronaca, non credo ci siano andati molto lontano: in questo disco credo sia evidente un tuo definitivo incontro con l’elettronica e con mondi a metà che avevi probabilmente già rintracciato—collaborando con These New Puritans, per fare i nomi.
Sì, lo sento molto più influenzato da quel linguaggio. Loro sono stati una chiave e continuano ad essere un’esperienza importante per la mia musica, me ne sono accorta anche registrando recentemente il loro nuovo album: è sempre un’evoluzione di qualcosa fatto in precedenza. Ed è elettronica senza essere mai veramente elettronica.
In questo senso, poi, Londra è una città che si nutre molto di questi non–confini tra generi musicali, li rende la cosa giusta, inevitabile: che bilancio fai della tua “nuova vita” da musicista in Regno Unito dopo più di dieci anni? Cosa ti ha restituito (e ti sta restituendo) dal punto di vista delle influenze e delle idee?
Mi ha permesso di eliminare le etichette, liberarmi mentalmente e approcciare la musica come credo sia fondamentale fare, cioè associandoti a stimoli sempre e il più possibile nuovi e intensi. Tutti i musicisti che conosco e ho conosciuto in città non si limitano ad un solo genere musicale, sono immersi in decine di progetti. E riescono a lavorare sempre molto, tra produzione e live, da una late jam al Ronnie Scott's a Soho a una gig più pop il giorno dopo.
E quanto c’è del tuo rapporto con questo (ormai non più nuovo) ambiente in Forest City? Specie perché a me sembra di vedere proprio dei colori, delle sensazioni e dei suoni che – non saprei come dirlo meglio – sembra possano venir fuori solo a certe latitudini, a contatto con certi luoghi.
Credo parecchio: è sicuramente un disco nordico, sì, molto assimilabile alla scena UK, in questo senso. Persiste una certa dualità con quello che sono stata, ma è qualcosa che sicuramente emergeva abbastanza di più nei miei primi lavori da solista. In questo, indipendentemente dal fatto che sia “nato” a Londra, ho sentito come una decisa liberazione verso la possibilità di rischiare. Ed è qualcosa che ho sicuramente acquisito qui.
Dualità che torna anche nel concept dietro l’album, che tu hai descritto come «un desiderio di essere immersi nel mondo naturale e nel brusio della città allo stesso tempo».
Sì, ed è anche—o forse più precisamente—il desiderio di immaginare una città che non esiste, un non–luogo dove poter provare questo tipo di esperienza: ho immaginato la vita dentro una città–foresta. L’ispirazione deriva dal fatto che sono sempre stata molto legata alla natura e ho sempre vissuto in grandi città, Roma e poi Londra, che hanno entrambe un rapporto particolare con i grandi spazi. Londra, poi, è la parte in cui la natura diventa totalmente accessibile e totalmente a contatto con te, in quegli spazi.
Oltretutto credo esista qualcosa di magico (e di nuovo, difficile da tradurre in parole) di quello che certa musica, da queste parti, riesca ad evocare in relazione ai non luoghi di cui stiamo parlando. Penso ai Radiohead di Kid A, a Burial, ai Boards of Canada o anche ad altre firme contemporanee meno di copertina, come Max Richter o Rival Consoles: emerge sempre un certo tipo di tonalità emotiva che riesci a sentire solo dalla musica che viene fatta qui, specie poi nelle cose più lontane dal pop.
C’è un’energia creativa particolare, decisamente. E secondo me è quasi (e anche) una questione di sopravvivenza, strettamente legata alle sensazioni che provi qui. Penso banalmente al grigiume del cielo—che è una delle tonalità che sicuramente vedrai di più, se vivi in questi luoghi—, una cosa che paradossalmente aiuta e stimola a farti vedere qualcosa che abbia dei colori opposti, con le sfumature più peculiari possibili.
Tra le tue sfide volte al cambiamento, in questo disco canti per la prima volta sulla tua musica.
È un’altra cosa che viene dal mio passato, in questo caso di quello da corista. Poi negli anni ho sempre suonato pianoforte o altri strumenti e ho lasciato indietro questa parte, che volevo finalmente rimettere in gioco. Di nuovo, essere me stessa davvero. Quando ho portato il disco al mixaggio finale mi chiedevano «chi è che canta su queste tracce?»: non lo sapeva nessuno, finché non ho finito di lavorarci. Trovo sia un elemento molto vicino agli altri strumenti con cui mi rapporto, dal pianoforte al sintetizzatore, e la mia idea è di cominciare un percorso in cui si possa amalgamare con loro, dialogarci.
Abbiamo parlato molto di UK, ma come senti questo interesse tornare anche (e finalmente) dall’Italia?
Ovviamente mi fa molto piacere, sono le mie radici. Nonostante il fatto che il mio trascorso da musicista in Italia è stato sempre un po’ complicato, quando mi esibivo mi sembrava di farlo davanti a gente che non capisse veramente la musica o che non aveva reale interesse ad ascoltare. Il mercato Italiano poi si sa, rispetto a qui è sempre un po’ più lento ed imprevedibile. Vedremo cosa accadrà, ma sarei molto contenta di potermici riavvicinare con questo progetto.
Quando comincia il percorso dal vivo di un disco nascono anche le domande su quello che succederà in futuro. Ma il tuo futuro, alla luce di tutto quello che abbiamo detto, è una costante su cui lavori da sempre. Come ti senti rispetto a quello che accadrà dopo Forest City?
Credo fortemente che suonando dal vivo nascano nuove idee, le più importanti. Anche perché dopo due anni accanto ai tuoi brani è essenziale godersi la loro vita fuori da uno studio, ma è anche utile e stimolante per capire cosa c’è oltre. Funziono così, cerco di visualizzare quello che potrà accadere mentre sul palco sto suonando l’ultima cosa su cui ho lavorato. Questo è necessario sia per scrivere nuova musica che per capire che collaborazioni sarebbe bello far nascere, una componente a cui sono da sempre legata: mi piacerebbe cominciare a farlo con artisti della sfera elettronica, per esempio.
È il momento che considero perfetto per cambiare, il punto in cui dire «andiamo avanti, vediamo cosa c’è dopo»: dalle tastiere ed i synth che ho usato per produrre il disco al setup del prossimo live, tutto ciò che mi stimola è guardare alla prossima sfida.
E sì, ho già cominciato a pensarci.
Forest City è uscito il 6 Maggio su Innovative Leisure.
Le foto sono di Alexandra Waespi.
Se non metti L’Ultimo
Qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter, a volte anche un po’ di fatti miei.
Oggi in versione XXL.
(Un botto di) cose che ho ascoltato recentemente
Letteralmente.
Su ogni titolo c’è il link per ascoltare, poi fammi sapere.
PS: L’ordine è completamente casuale 🔀
Stellan Veloce’s Complesso Spettro è l’EP d’esordio di Stellan Veloce, compositore, performer e violoncellista sardo di base a Berlino, uscito per Hyperdelia. Brackish e Briny, i due brani del disco, fanno da ponte tra le diverse anime che abitano la ricerca artistica di Veloce, il pop sperimentale e la musica contemporanea—oltre che lo spazio geografico in cui la sua pratica si è evoluta, a metà tra ispirazioni internazionali ed i colori della Sardegna. Il risultato è un viaggio fuori dal tempo, come recita la scheda che lo presenta: «il disco prende i suoi spunti dai meticolosi processi di registrazione e di editing dei Talk Talk, dalle grandi narrazioni di Seven Storey Mountain di Nate Wooley o il rumore strutturato degli Animal Collective».
Notte è invece il nuovo album di Cucina Sonora, progetto del pianista e compositore Pietro Spinelli, già session man e turnista, tra gli altri, per Rkomi, Gianpace, M.E.R.L.O.T., Claudym ed Elasi. Diplomato in pianoforte classico al Conservatorio di Siena e trasferitosi (anche lui!) a Berlino per studiare composizione elettronica al dBs Institut, Cucina Sonora ha sempre cercato nella sua musica una sintesi tra i suoi due universi di provenienza (e si sente): ad uno stile pianistico più strutturato si uniscono contrasti glitch ed elettronici, esplorando un suono immaginario traccia dopo traccia. Una scheggia impazzita, ma con dentro tanta qualità.
Ich.Bin.Bob è l’alias di Bob Nowhere, producer cresciuto a Manchester da genitori italiani. Il suo progetto fonde ispirazioni beat–based analogiche a deviazioni elettroniche frizzanti (qui un esempio, nella traccia IDM: Intelligent Dance Mazurka), come il recente MIXTAPE 01: un frullato di meta–generi, che fa avanti e indietro tra suoni da mescola britannica e italiana rivoltandoli come un calzino. Dentro 7 remix e edit funambolici di 7 artisti differenti, tra cui Aaron Rumore, Tersø e Arssalendo. Il suo prossimo lavoro in studio, Discoteca di Stato, è in uscita a breve.
Anima Mundi è una composizione in tre atti dedicata alla perdita di vitalità ermetica del mondo, ma anche una performance a metà tra Butō giapponese e musica sperimentale. Dietro c’è Salvatore Pecoraro, alias Orgonon Sound Machine, nome che promette decisamente bene: una macchina del tempo (mai banale) direzione anni Settanta, tra musica cosmica e vagiti ambient. Sempre su etichetta OFF uscirà a breve Methods To Disappear 02, lunga suite sperimentale che ripercorre alcune delle influenze già approcciate in Anima Mundi.
Negli ultimi anni la musicista svedese Linnéa Talp si è interessata agli spazi liminali del suono, cercando di far risaltare il suo respiro nei sottili dialoghi tra gli strumenti e creando veri e propri ponti sussurrati tra note immaginare e organiche. Nel suo nuovo Arch of Motion spiccano il suo primo incontro con il sintetizzatore Buchla e le idee di John Cage, la non-intenzione come fonte di ispirazione e la fisicità della musica. Un disco in cui regna la preziosità del tempo e la sacralità di emozioni bisbigliate.
«Alla ricerca dello specchio acustico perfetto per la sua percezione del mondo», in Burst / Glimmer (per Unperceived Records) il tedesco Hannes Kretzer ha raccolto un compendio di ispirazioni tra quell’elettronica perfetta da ascoltare alle prime luci dell’alba e dei raffinati richiami cameristici à la Erased Tapes, in due brani in cui sembra di sentire lunghe versioni eteree di Moderat mai esistiti.