Il paradosso Hyperpop
O di come un genere—non genere abbia trovato popolarità nel momento in cui aveva deciso di sparire
Sono usciti tre album piuttosto chiacchierati, tra fine 2019 e 2020. Tre album che racchiudevano in forma pressoché matematica l’evoluzione sonora e culturale di tre artisti di cui, in rete, si è discusso molto nella seconda parte degli anni dieci.
E principalmente, perché tutti in modo diverso veri portabandiera di una scena e di un genere musicale che aveva dapprima incuriosito pianeti online più lontani dalla superficie, finendo per diventarne simbolo, poi si era trasformato in scheggia impazzita da potenziali uova d’oro, su cui Spotify e TikTok hanno messo gli occhi.
Non si sa quanto anticipando i gusti della Gen Z e quanto effettivamente raccontando l’ascesa di questa scena nel modo migliore, ma il vero tramite perché questo accadesse, di fatto, è stata la lenta e inesorabile uscita di scena dai radar della trap, sia in Europa che, soprattutto, in mercati ancora più grandi come l’America. Ricordiamoci l’antefatto, ma su questo ci torniamo tra poco.
In rete, dicevamo, perché IRL (per cominciare ad addentrarci nel cuore della questione) tutto il casino che gli interpreti del cosiddetto movimento Hyperpop avevano tirato su faceva un effetto quasi straniante: esisteva lì, tra Soundcloud fino all’esplosione di Twitch, aveva mille definizioni diverse (tra cui la più accreditata bubblegum bass e bizzarre varianti come post-ringtone music) ed era – anzi, probabilmente continua ad essere – una lingua così troppo più affine ad un thread di Reddit programmato interamente da uno JavaScript alieno che non quella pensata da gente in carne ed ossa. E che possa calcare un palco vero, fuori dal virtuale.
I dischi in questione, ovviamente, sono 7G (che anticipava il “vero” LP, almeno nelle intenzioni, Apple) di A. G. Cook, how I’m feeling now di Charli XCX e l’album di debutto, omonimo, del duo 100 gecs.
Possa tu vivere in tempi interessanti
Nelle parole di Joe Vitagliano su American Songwriter, esattamente un anno fa, «l’Hyperpop è un genere eccitante, roboante e iconoclasta, che attinge al simbolismo quotidiano e ai cliché della “musica popolare” per creare qualcosa che è massimalista, impressionista e, beh, incredibilmente divertente. Con synth seghettati, auto-tune, percussioni ispirate al glitch e una vibrazione distintiva di una distopia tardo-capitalista, il suo suono cattura il senso di catarsi e di ansia che sembra essere diventato così prevalente nel nostro mondo moderno».1
Il pezzo in questione proclamava A. G. Cook come artista che sta cambiando la musica popolare per come la conosciamo e, attraverso una lunga intervista, il produttore londinese asseriva come le sue influenze possano spaziare da Bob Dylan a Joni Mitchell, da Aphex Twin a Dolly Parton, sostenendo persino che tra gli ultimi due si possa trovare una certa analogia, ascoltati in un lungo viaggio in macchina.
Qui scattano alcuni paradossi: il primo, su cui verte un po’ tutto il discorso, è il fatto che questa musica che improvvisamente “sta cambiando il pop”, buongiorno, esiste da un bel pezzo. Il secondo è che la reazione della stampa meno avvezza a quei contesti è così definitoria semplicemente perché un album vero e proprio (e tutto suo), Cook, non lo aveva ancora prodotto: era “solo” rimasto il mastermind dietro decine di collaborazioni, remix e brani suonati prima tra basement londinesi con ingresso gratuito, poi su enormi stage in festival di mezzo mondo.
Ma del resto, l’universo Hyperpop e i paradigmi di cui si nutre sono una cosa divertente e incurante, che di questi paradossi vive, perché contengono una costante domanda su quanto ci sia davvero da prendere sul serio e allo stesso tempo quale apparente strato di prossimo futuro stiamo sfiorando, da qualche parte tra beat che sanno di blu elettrico, sample rosa fluo e una fenomenologia post-internet zippata in compresse da 100g(ecs), che il più delle volte ti fa solo venir voglia di fare festa grande.
La verità, per tornare alla riflessione cruciale, è che dischi che finiscono in nomination ai Grammy o al Mercury Prize non sono una semplice e divertente buzz, ma un fenomeno che esiste – e che si evolve, e impone – da quasi un decennio. E che questo «collage burlesco e postmoderno di Skrillex, Mariah Carey, Blink-182, Nelly, Linkin Park, Kenny Loggins, eurodance e ska»2 ha dato vita a un corto circuito che forse abbiamo sottovalutato. L’equivoco concreto, come spesso accade, è relativo al timing con cui se ne discute criticamente: più che qualcosa in grado di diventare il suono controculturale degli anni ventiventi, PC Music ha costruito la sua fortuna un bulk upload su Soundcloud alla volta, ma quasi una decade fa.
L’etichetta fondata da Cook nel 2013, infatti, aveva già prodotto una quantità incredibile di fenomeni, da Danny L Harle a GFOTY e EASYFUN, fino a scovare e poi associarsi a SOPHIE, presto diventata astro nascente totale non solo del “genere” – con tutte le virgolette che volete–, ma anche e soprattutto della filosofia dietro le possibilità della label britannica di abbracciare il mondo della popular music, sconvolgendola. Creando qualcosa veramente ascrivibile ad un concetto di nuovo.
Nel giro di qualche mese, con Hannah Diamond pompata sulle pagine di Billboard, prima, e il singolo “Hey QT” di QT3 prodotto da Cook e SOPHIE e licenziato da XL Recordings, fu chiaro che le cose stavano prendendo una certa piega. Tutto il resto è abbastanza storia, e risale a otto anni fa. Questo breve ripasso, fatto solo per riportare la mappa delle cose un po’ più su una prospettiva realistica, serve a chiarire il paradosso che è saltato fuori su pagine (e pagine) di magazine e riviste (davvero) di tutto (tutto) il mondo.
Nel 2020, vale a dire l’anno in cui l’Hyperpop ha continuato a testimoniare la sua volontà di non prendersi troppo sul serio, pandemia e lockdown hanno messo il suo habitat virtuale al centro del villaggio, con tre dischi—testamento di una scena ormai matura, che desta persino la curiosità delle principali penne del New York Times.
La stessa Charli XCX, qualche settimana fa, aveva incendiato un discorso su Instagram parlando provocatoriamente di una fine dell’Hyperpop, chiedendosi se in realtà fosse mai veramente esistito. Proprio lei che, di fatto, con l’album collaborativo realizzato in quarantena la scorsa primavera (fatto di ore su Zoom a chiedere consulenza ai fan e stems che arrivavano sul suo PC da collaboratori in giro tra Europa e America), ha incarnato il simbolo di questa generazione sino in fondo, a partire dal disco definito vero e proprio iniziatore di una scena, Pop 2.
Tutto sembra un divertente e continuo corto circuito, ma le proporzioni non ancora chiare sono più che altro derivate da chi ne parla con sorpresa, oggi: da dove deriva tutto questo interesse nell’anno più lontano da club, musica dal vivo ed esperienze reali?
Hyperpop in Italia, futuribilità, corsi e ricorsi storici (feat. Aaron Rumore)
Per fare un po’ un recap di tutto questo frammentario e frammentato discorso, ho chiesto lumi ad Aaron Rumore, cantante, autore e musicista napoletano e vero Cicerone dell’Hyperpop made in Italy, che da poco ha rilasciato l’album Palazzo di Ghiaccio (Confessionale) e che non più tardi di un mese fa ha organizzato il primo festival di genere, alle pendici del Vesuvio: ECOSISTEMI.
Allora, com’è andata?
È stato un coronamento di tutto quello che avevamo fatto, sia su Soundcloud che su altri lidi, fino ad arrivare alla realizzazione del mio disco. E ha confermato una sensazione forte, cioè che questo termine–ombrello tornerà sicuramente utile per definire a livello critico (oltre che commerciale) la cosa, ma all’interno, sono ancora più convinto, tutto dipende da una forte coesione, da un senso di comunità. La posta in gioco, per quanto riguarda ECOSISTEMI, era la scommessa su come tutto questo movimento sarebbe funzionato fuori dai server, e le immagini e le sensazioni che mi ha restituito sono ottime.
È bizzarro pensare che in Italia si parli di Hyperpop solo adesso, ma è altrettanto stimolante vedere che stia quasi attecchendo in quelle terre di mezzo lasciate fuori da una gerarchia e logica di streaming che comincia a perdere qualche protagonista. Qual è la tua su questo punto?
Il fatto abbia attirato improvvisa curiosità credo sia dipeso dal lento tramonto della trap, fino a poco tempo fa unico e imprescindibile riferimento per gli ascoltatori più giovani. Poi penso che in Italia, con il ritardo culturale che spesso e volentieri ci contraddistingue, molte volte non ci sono gli stessi mezzi per far sì che un certo tipo di realtà, a prescindere, esistano. E questo include sia un livello di scrittura che uno di “scena”, quindi di eventi, di concreta evoluzione del fenomeno. Non credo si tratti della classica emulazione in ritardo del mercato estero, ecco.
E in generale, cosa pensi del fatto che negli ultimi due anni ci sia stato questo improvviso interesse verso il fenomeno? Voglio dire, sia in Europa che oltreoceano, sembra stiano cercando di inserire il genere, con estremo ritardo, nelle realtà di mercato odierne.
Io penso sia un modo di fare musica, più che un vero genere, che ha mandato un po’ in tilt il sistema di definizioni critiche, finito curiosamente per arrivare in ritardo, in questo caso sì, a capirci di più. Che poi è, in maniera molto sottile, quello che succedeva quando si cercava di capire più da vicino i movimenti come la emo, il punk e in generale un po’ tutti i filoni di derivazione DIY: il modus operandi della gente che consapevolmente fa parte di questo mondo definisce musica e percorso meglio di quanto farebbe un’analisi esterna, anche più ampia e approfondita.
È un glitch che non riguarda solo le tempistiche con cui si è arrivati a parlarne, quindi.
Sì, ed è anche quanto succede quando si verte ad etichettare un fenomeno piuttosto che comprenderlo veramente, in molte realtà musicali. Se ascolti Palazzi di Ghiaccio, per alcuni può tranquillamente essere Hyperpop, ma per i suoni che ho usato io lo definirei shoegaze o a tratti ambient, per dire. Per allargarci al panorama internazionale, l’esempio dei tre dischi–manifesto, da Cook a Charli fino ad arrivare ai gecs, è un coronamento di quel percorso di community che si incontra virtualmente e decide in che direzione far andare un disco: ci si conosce, ci si scambia file e dopo anni di gestazione vengono fuori fenomeni iper-chiacchierati come 7G. Ma, appunto, dopo anni di medie o grandi realtà cresciute sottotraccia, nell’underground, rimaste volutamente e sfacciatamente di natura do it yourself.
All’estero sembra comunque che questa bolla viva il rischio di essere già esplosa, per di più con troppe pressioni derivate proprio dalla sua natura underground. Sembra che il pericolo di questo hype post-internet di cui è fatta generi domande sulla reale forza in versione pop (e quindi commercialmente dominante) dei suoi artisti.
È un po’ lo stesso discorso di prima, cioè che più si va a fondo verso una definizione “risolutoria” più significa che stiamo parlando di un ambito di mercato. Ogni mossa più grande del previsto potrebbe adesso far scomparire il termine e spegnere questi incendi concettuali, ma in generale non credo sarebbe un male, anzi. Personalmente, da fondatore di un festival di questo movimento e con un disco fuori che sintetizza molti degli stilemi di cui stiamo parlando, non riesco a vedere una componente negativa in una possibile espansione “popolare”.
La domanda in coda a molti articoli di genere però rimane più o meno sempre uguale: “dove arriverà tutto questo?”.
Sì, sostanzialmente si riduce tutto a una sintesi che parla di derive gabber, curiosi inserti post-club, voci col pitch a palla e suoni iper-accelerati: così è chiaro sia difficile capirne la vera traiettoria. Questo in realtà è solo uno dei modi per narrare le cose, cioè quella più commestibile e spendibile perché un ampio pubblico possa assorbirne le idee. La vera missione, sia nel caso di realtà Italiane che di player grossi, sarà quella di uscire un po’ dal recinto di pregiudizi, a partire dal linguaggio stesso per poi passare alla musica. A livello globale posso azzardare che questo accadrà già col nuovo disco dei 100 gecs, che sono molto sotto i riflettori, dall’esordio.
Anche perché fino ad ora, nonostante tutto, le comunità che guidano questo percorso sono rimaste a mio avviso abbastanza naturali in quello che portavano avanti: ieri SOPHIE, Charli, A. G. Cook e domani i 100 gecs hanno tutti continuato a fare musica che flirtava col pop, ma non si preoccupava veramente di associarsi ad essa. Quante possibilità ci sono che questo improvviso interesse finisca per far scivolare il movimento verso l’altro lato delle cose?
Io lo vedo anche in questo caso come un percorso di crescita, di ibridazione: guarda il disco di remix di Lady Gaga, ad esempio. È un po’ il futuro che immagino possa accadere su più livelli, di quelle commistioni tra il modo di essere Hyperpop e il modo in cui si fonderà il pop, nell’immediato, con esso. Si tratta di qualcosa sempre in prima linea, nella natura delle cose, quindi è un compimento quasi telefonato del processo: aprirsi a possibilità diverse, senza snaturare l’attitudine messa in gioco. Di fatto, il marchio di fabbrica di casa PC Music.
Sì, la questione Gaga credo sia emblematica, in questo senso: Dawn of Chromatica, già dalla cover, sembra essere un meta-meme accidentale del panorama, ma visto molto da fuori. Più che entrare in simbiosi con la scena da cui cerca di prendere il pubblico, da più la sensazione gli faccia inconsapevolmente il verso.
È curioso perché se prima l’Hyperpop campionava, decostruiva e remixava Lady Gaga o Taylor Swift adesso fa musica con (o per) Lady Gaga o Taylor Swift: praticamente ha fatto il giro. Più che parodistica, la cosa riflette lo stato dell’arte dell’industria discografica, che sta rivalutando quell’aspetto di riportare in auge una certa estetica del passato, che ripesca qualcosa di futuribile dagli anni Novanta, ovvero esattamente il caso dei riferimenti culturali Hyperpop. Penso ad esempio a Crystal Castles o Salem, enormi reference nascoste per il pop elettronico attuale. È come tirare una linea genealogica che riconnette i punti: agli albori c’erano cose ancora più interessanti, dentro PC Music, che prendevano da quell’idea di pop saturo, massimizzandolo e sperimentandoci su.
Altro paradosso è quanto Spotify si stia impegnando a creare un ecosistema Hyperpop, a suon di playlist molto pubblicizzate, nel momento in cui questi artisti sembra abbiano raggiunto una maturità tale da volersi quasi distaccare, dalla definizione (vedi provocazione di Charli XCX).
Penso che, a prescindere, sia interessante il fatto che questo canale di comunicazione si sia aperto. Sia che si faccia in maniera un po’ naïf e a livello commerciale, tra il celebrare questa esplosione da una parte e osservare criticamente, come stiamo facendo qui, dall’altra. È palese che negli artisti ci sia la coscienza e la progressiva volontà di non volersi definire, ma questo, tra le righe, deriva dal fatto che la narrativa sia sempre stata ridotta a qualcosa del tipo “è un giochetto che mette dentro voci accelerate, pezzi speed–up influenzati dal vocaloid”, e così via. Spotify o meno, quindi, è realistico dire che non esisterà un disco Hyperpop “definitorio”, per quello che la sua evoluzione racconta, né tanto meno che dovremmo cercarlo a tutti i costi in una playlist.
Come pensi si traduca questo sviluppo in Italia, a livello di logiche di mercato?
Ci troviamo ancora in una fase di incubazione del fenomeno, quindi sarà un po’ come ricalcare i passi della scena UK di qualche anno fa, agli inizi. La grande risposta del pubblico durante ECOSISTEMI mi ha dato l’idea che questa cosa è reale, che c’è un’evoluzione. Fra uno/due anni i ragazzi venuti con curiosità a sentire potranno fare la loro cosa, organizzare un altro festival e portare avanti una nuova community, sempre sotto il segno di una cultura DIY. Una rassegna di questo genere, con persone, collettivi e comunità da tutto il Paese che si ritrova nello stesso luogo (e talvolta si incontra per la prima volta) è un po’ la fotografia di quello che è stato il modus operandi del genere, dagli albori.
Chissà, magari potrebbe nascere un A. G. Cook nostrano che remixerà una Lady Gaga, ma questo è un altro di quei processi che dipende molto dall’evoluzione di mercato. Nell’ormai sdoganata scena rap Italiana di qualche anno fa, per dire, per centinaia di emuli di XXXTentacion c’erano altrettante copie carbone che non sono andate da nessuna parte, ecco.
Quindi questa idea futuribile del fenomeno non è (ancora) fuori tempo massimo.
Affatto, credo questo giro circolare che interessa e influenza il pop chiarisca invece le cose: per il lascito culturale di cui stiamo parlando, tra venti o trent’anni è abbastanza prevedibile che una musica futuribile, qualsiasi essa sia, ripescherà i riferimenti dall’Hyperpop degli anni dieci. Trovare il vero linguaggio per definirla oggi, invece, è un vero esercizio di stile. E la mia speranza è che questo genere di confusione continui ad essere ben presente, perché la sua vera forza arriva proprio da lì.
Una guida definitiva alla storia dell’Hyperpop e di PC Music, su Dazed.
La scena Hyperpop a Brooklyn, raccontata da Paper Magazine.
Il racconto di ECOSISTEMI, su i-D Italia e Rockit.
Sono stati i Basement Jaxx ad inventare l’Hyperpop? Una teoria di Shawn Reynaldo, sulla sua newsletter, Factory Floor.
(DANZƏ), la compilation Italo–Hyperpop che ha coinvolto artisti, produttori e videomaker tra i 14 e i 22 anni.
J. Vitagliano, A. G. Cook Is Changing Popular Music As We Know It, American Songwriter, 2020.
S. Kornhaber, Noisy, Ugly, and Addictive: Hyperpop could become the countercultural sound of the 2020s., The Atlantic, 2021.
In un AMA su Reddit, A. G. Cook ha spiegato che la voce del pezzo “Hey QT” non è stata realmente cantata da Hayden Dunham, che la impersonifica, ma da Harriet Pittard, anche conosciuta col progetto Zoee. Hyperpop allo stato puro.