Random Access Memories of Every Pearl’s Un-Insides
O del perché nel futuro non c’è più spazio per la musica elettronica
«Ciò che era prima il sound del futuro è diventato quello del presente, e stiamo ancora vivendo esattamente lì, oggi».1
Con questa chiusa, sulle pagine di A.V. Club, Tegan O'Neil incensava il percorso di Warp Records a vent’anni dal suo ingresso sulle scene. Sono passati già più di dieci anni, da quel pezzo, e rileggere con attenzione questo passaggio dal tono così elettrizzato mi ha fatto capire quanto, in fondo, non ci siamo accorti che tutto il discorso sulla cosiddetta musica del futuro sia diventato, durante gli anni, un equivoco sempre più ingombrante.
«Era il sound del futuro / Stiamo ancora vivendo lì».
Già, rileggendo con attenzione, la dissociazione dalla realtà sembra parecchio evidente. E continuava: «proprio come la fantascienza, gli scenari futuri che la musica elettronica offre possono apparire datati, col senno di poi, se non addirittura kitsch. Questa non è necessariamente una cosa negativa: le nostre fantasie sul futuro ci dicono di più sul presente di quanto potrebbero mai fare sul mondo reale di domani, e i futuri passati ci dicono molto su chi eravamo una volta».2
Beh, ineccepibile. Se non fosse che, ai confini di tutto questo discorso, c’è un elefante nella stanza che da tempo forse cerchiamo di non vedere, e che alcuni eventi piuttosto importanti, di recente, credo abbiano agito da fosforo perché i nostri occhi potessero schiarirsi per farlo.
L’elefante, nello specifico, è proprio l’espressione “sound del futuro”. Soprattutto la sua eterna quanto angosciante associazione di matrice socio–linguistica a una musica altra, molto spesso ridotta semplicemente a titolo di “musica elettronica”, in modo molto generico. Un mantra già scritto prima di essere sentito, un sempreverde per etichettare musica che ha a che fare con qualcosa di più complesso di quello che si è soliti ascoltare.
Ma soprattutto, che ha a che fare con delle macchine. Proprio come la fantascienza, appunto.
I picchi toccati da un’artista tragicamente scomparsa quest’anno e da un duo che di questa storia ne ha segnato un ventennio hanno, in qualche modo, annunciato il funerale di quell’elefante. E forse anche di questa lettura fantascientifica attorno a essa.
Sto parlando ovviamente della tragica morte di SOPHIE e dello split dei Daft Punk.
Francesi che parlano una lingua franca
Su The Guardian, Alexis Petridis ha congedato lo scioglimento dei Daft Punk definendoli i musicisti pop più influenti del Ventunesimo secolo, artisti capaci di far risorgere la disco, il soft rock e l'R&B degli anni '80, portando lo spettacolo nel mondo della musica da ballo. L’apertura del suo articolo recitava perentoria che «lo stile che Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo hanno coniato nel 1997, con “Homework” è ora parte della lingua franca del pop»3.
L’espressione che più mi ha colpito è proprio quest’ultima, quella che mi ha fatto cominciare a ronzare in testa certe riflessioni: perché mai qualcosa viene definita linguaggio–eversivo degli ultimi decenni un attimo dopo aver cessato di esistere? Per quanto questo sia uno degli editorial più riusciti di quei fatidici giorni, il fastidioso brusio di sottofondo che questo pezzo mi aveva suscitato è, a mente fredda, riconducibile al fatto si parli di tutta una serie di idee anticipatorie ascrivibili a Bangalter e de Homem-Christo. Come se di colpo ci fossimo dimenticati di loro e dovessimo tornare sui libri, a ripassare i fondamentali e unire dei puntini.
Aspettate, non è che io contesti l’idea di fondo (non del tutto, diciamo). Che i Daft Punk abbiano dato tanto al pop è indubbio, così come il fatto che la loro impronta sull’elettronica del nuovo millennio abbia sparigliato irreversibilmente le carte in tavola (anche se, a dirla proprio tutta, credo sia l’elettronica che ha dato di più a loro, ma questi sono solo i miei miseri due cents).
Ai margini di questa tesi, però, mi pare evidente ci sia la narrativa attorno a quel fenomeno che ci ha edulcorato sulle verità contemporanee e che va adesso consegnato a idee di declinabile futuro: quello di cui ci rendiamo conto manchi, nel momento stesso in cui lo vediamo svanire. Tutto questo un po’ soprassedendo pure sul fatto che il duo francese era sostanzialmente inattivo da otto anni, e l’ultimo disco parlava di loro già al passato.
E per carità, questo, per i Daft Punk, non è mai stata una novità. Come dice Hua Hsu, che sul New Yorker analizza bene il chiaro quanto recidivo equivoco: «la cosa dei robot-umani raramente sembrava un commento alla vita contemporanea, e persino un brano come "Television Rules the Nation” era più una paranoia anacronistica. Brani di quel tipo non erano davvero provocazioni sull'automazione o l'alienazione, quanto un'esplorazione della nostalgia dell'infanzia, del brivido di sentire Giorgio Moroder o i laser con effetti speciali per la prima volta, attaccati a un senso degli anni Settanta o dei primi anni Ottanta, di come sarebbe stato il futuro»4.
Ci risiamo, con il futuro. Ma i Daft Punk, come dice lo stesso Hsu, parlavano di nostalgia, non di futuro: “Random Access Memories" era, di fatto, un commiato artistico rivolto all'indietro, piuttosto che in avanti. Era un omaggio a tutto ciò che il loro mondo era stato, al limite a ciò che poteva essere. Era quella, la loro lingua franca, e non ha mai veramente voluto cambiare il pop. Dall’altro lato di una barricata temporale e immaginaria, non parlava nemmeno di quell’idea di musica elettronica di “The Man-Machine” dei Kraftwerk. Quella che sì, aveva cambiato parecchio una lingua franca.
Ma parliamo di una lingua adesso svanita. Abbiamo solo tardato, lungo il tragitto, a gridare al miracolo, per inerzia. Illudendoci che avremmo di nuovo potuto immergerci nel fantomatico nuovo.
Come si dice autoprofezia in tedesco*?
Ok, giusto: facciamo un paio di passi indietro.
Tra gli anni Settanta e Ottanta i Kraftwerk presero il sintetizzatore e lo fecero diventare roba pop. Anche loro, resero qualcosa lingua franca di un mondo apparentemente distante dalle loro intenzioni. Da Bowie a Brian Eno, da Moroder alla techno di Detroit, dal synth-pop ai Depeche Mode e Michael Jackson: tutto era cambiato, sia nelle latitudini più alte di classifica che nell’underground che premeva per uscire fuori.
Sì ovvio, così sembra una storia di causa–effetto facile facile, quando parliamo di qualcosa che ha cambiato trequarti di musica che ascoltiamo, per sempre. Capirete che servirebbero altre diecimila battute per entrare più nel merito: ci torneremo con più calma un’altra volta.
Ciò che ci serve invece ai fini di questo discorso è che quanto distinse i tedeschi da altri menti della musica elettronica che sperimentava con le macchine fu di fatto il concettualismo che applicarono al loro stesso uso, cioè quello del futuro: le melodie orecchiabili e la loro sfacciataggine – celate da una fittizia veste robotica, in quel mistero di parafantascienza che li ha di fatto resi unici – hanno avuto un impatto definitivo sul bilanciamento totale tra potenza musicale “per le masse” ed espressività di ricerca (sì, insomma, quella di chi faceva l’elettronica). “The Man-Machine” e “Computer World” sono di fatto odi alle macchine, ma controllate dalle idee. Quindi dalle persone.
A far parlare le idee prima delle macchine è stata anche SOPHIE, una di quelle menti che potevano scrivere qualcosa di altrettanto significativo, che ci portasse altrove. E per un buon tratto di strada lo aveva fatto molto bene. Con punte di futuro (aridaje) che avevano immaginato dalle parti di Düsseldorf.
La differenza sostanziale è che SOPHIE ha dichiaratamente iniziato con l’idea di scriverlo, quel futuro, con gli strumenti in gioco come tramite, non punto d’arrivo. Assolutamente non come punto da cui guardarsi indietro. Quegli strumenti che voleva rendere “una versione molto annacquata della fantascienza”, tra synth-pop, elettronica ed estetica cibernetica, per lei, sono stati un playground dell’espressività, un concentrato di idee abbastanza oltre, e per questo in grado di spaccare in mille pezzi le dinamiche tra le fazioni di popular e di musica elettronica. Insomma, sì: non c’erano solo campionatori, a squintalate, di mezzo. Che un po’ come i toscani, hanno devastato questo paese.
“OIL OF EVERY PEARL'S UN-INSIDES” ottiene una nomination ai Grammy Awards pur essendo un frullato di metafore estetiche e concettuali dai tratti maximal, di paradossi asfissianti di suono, di un linguaggio meta–alieno: un viaggio tra il piacere e il dolore, anthem del suo concetto di avant–persona. Non raccontava nulla di pop, né lo citava per acciuffare il successo. Non aveva alcuna nostalgia del passato. Più che rendere nuovamente nuovo il tema sulla musica elettronica di domani, SOPHIE ha scardinato le bolle del discorso sulla terra di mezzo fra la pista e la radio, ovvero ciò che a quel punto era diventato persino cliché (e su questo ci torneremo tra un attimo).
Come ha scritto sulla sua newsletter incentrata sulla club culture Shawn Reynaldo, ex collaboratore di XLR8R e adesso mente di First Floor, «piuttosto che aspettare il futuro, SOPHIE è andata avanti e ha iniziato a costruirlo. Ora che non c'è più, possiamo solo immaginare come sarebbe stato quel futuro, ed è terribile sapere che non avremo mai la possibilità di vederlo. C'è una cosa di cui sono sicuro, però: avrebbe sollevato un sacco di domande interessanti».
L’artista scozzese aveva rimesso la persona davanti alla macchina. Anzi: era lei stessa, la macchina. E la sua immagine, il suo personaggio, sono sempre partiti da domande, più che da certezze. Ovvero tutto ciò che a questo punto era indispensabile per provare a capire davvero, cosa ci fosse oltre il già conosciuto.
Corsi e ricorsi storici ci hanno insegnato – e lo hanno già fatto probabilmente anche nel caso di Arca –, che come un’autoprofezia di cassandriana memoria ci siamo fermati troppo presto, per scoprirlo.
Si può cambiare il futuro?
Tutto si è fatto macchina, meno si è reso concetto, forma o idea. E se invece si potesse cambiare il futuro?
A questa domanda, secondo me, ci hanno pensato in molti, a cavallo tra 2010 e 2015. C’è stato uno spazio di tempo in cui si era presunto potesse essere ora di ricalibrare il telescopio che punta sui pianeti della sperimentazione elettronica, comprarsi una macchina del tempo per guardare cosa ci sarà domani. Magari, cambiandolo anche.
In questo senso, ci torna utile un pezzo di Phoebe Braithwaite, PhD student ad Harvard, che per Tribune approfondiva qualche tempo fa il concetto di modernismo pop di Mark Fisher. Ossia un tipo di cultura a cavallo tra lo sperimentale e il mainstream che, pur essendo popolare, richiedeva un lavoro per essere pienamente compreso, facendo a meno delle forme passate, seguendo un imperativo modernista di renderlo nuovo. E questo, per la musica contemporanea, incarnava anche un senso di possibilità che, a quanto risulta a Fisher così come alla Braithwaite, «non si è mai ripresa del tutto dalla profonda influenza degli anni Ottanta»5.
In questo strano scherzo del destino, i primi anni 2010 sono riconducibili a una vera ricerca di modernismo pop nella musica elettronica e, conseguentemente, a una lenta accettazione che nulla di veramente diverso, rispetto a prima, sarebbe veramente potuto accadere. Il debutto di SOPHIE con “BIPP” su Numbers è del 2013, che ai fini di questo discorso sembra essere un metronomo abbastanza importante: è l’anno in cui “Random Access Memories” fa sfracelli da quasi annunciato canto del cigno.
Sono gli stessi anni in cui si comincia a parlare di conceptronica e di avanguardia elettronica per le gallerie d’arte, in cui la musica del futuro, in un déjavù di matrice warpiana, è quella che manifesta l'urgenza di esprimersi altrove rispetto ai suoi usuali contesti. Nello spazio di pochi mesi, Burial – dopo il debutto più chiacchierato nell’elettronica post-2000 – bissava con “Rival Dealer”, Jam City, poco prima, rilasciava “Classical Curves”.
Oneohtrix Point Never caccia fuori la bellezza di sei (SEI) dischi tra EP e album nello stesso anno solare (di cui rimane sicuramente “R Plus Seven” come ricordo più vivido), l’icona accelerazionista James Ferraro due in fila, a un anno e qualcosa di distanza da quello che, a fari spenti, aveva già probabilmente segnato le sorti di questo decennio, sui thread Twitter più sgamati dell’accademia che incontra il club: “Far Side Virtual”.
È stata come una sorta di segmentazione del nuovo piuttosto che una sua piena integrazione nella cultura popolare. E forse, finalmente, l’elefante nella stanza non era più invisibile. In poche parole, la paura del passato era diventata rifugio nel futuro: un canone invertito, ma che, a quanto ci dice oggi il suo percorso, è durato troppo poco per aprire delle porte su mondi significativamente folgoranti.
Perché?
Perché in fondo non è successo nulla di troppo concreto: anche questo, sotto forma di problema di intersezione di genere, è diventato cliché nostalgico, pur essendo accaduto meno di dieci anni fa. Cioè, tanto da sembrare nostalgia di qualcosa anche mentre stava accadendo. Come ha spiegato Simon Reynolds, che a fine 2019 ha tracciato una linea su questo tumulto accelerazionista, «con la conceptronica (nome con cui lui racchiude gli artisti di questa generazione ndr) ci può essere la sensazione, a volte, di assistere ad una lecture. Per quanto affascinante possa essere, qualcosa mi ha sempre assillato: se il suo soggetto, nel senso più ampio, era la liberazione, perché ascoltandola non mi sentivo liberato?»6.
L’idea di “world-building” e di nuova arte totale, già a fine anni Dieci, sembrava un artificio del passato: Reynolds dice sentivo, non sento. Aveva dato per assodato che questa cosa qui, ormai, fosse bella che archiviata.
Lo stesso Fisher sosteneva che «la lenta cancellazione del futuro (in campo musicale ndr) è stata accompagnata da uno svilimento delle aspettative: la sensazione di ritardo, di vivere dopo la corsa all'oro, è tanto onnipresente quanto sconfessata». Aggiungendo che, a conti fatti, «la dipendenza da stili formati e stabiliti molto tempo fa suggerisce che il momento attuale è in preda a una nostalgia formale»7. Cioè che rifugiarsi nel già conosciuto – nell’elettronica così come nel pop dagli anni Settanta ad oggi, leggasi: scenario globale da cui deriva gran parte di tutto questo discorso – è una prassi ormai sostanziale quanto inconscia, della scrittura musicale.
E lo è da almeno una quarantina d’anni.
L’equivoco, a leggere come viene spessissimo descritta la musica elettronica di oggi, mi sembra presto detto: si parla a priori di evoluzione, di concetti di una narrazione inedita che stona tantissimo con la realtà. Quella che nel frattempo è andata a ritroso per capirci di più sul presente. Come ci insegna sempre il buon Reynolds, attraverso le pagine di Futuromania, esiste «la sensazione che in qualche modo siamo andati oltre il futuro**, e lo abbiamo lasciato alle spalle. “I Feel Love”, “Trans-Europe Express” e le altre profetiche registrazioni del nostro avvenire pop iniziano a sembrarci memorie fantasmatiche di una modernità e di un modernismo ormai finiti»8.
La mia idea, per chiudere questa infinita serie di cerchi aperti, è che nel tentativo di somigliare sempre più alle macchine e di consegnare loro l’idea, la musica elettronica sia diventata progressivamente citazione dei suoi mondi effimeri (hey, vi ricordate quanti milioni si facevano con l’EDM?). Quella, cioè, più attaccata al retromaniaco senso di creare contatto con la cultura pop, a partire da un contenuto, però, anti–ideale per la sua stessa fama. In buona sostanza, quindi, scontrandosi con tutta la cornice di fenomeni e contesti di cui si nutre, la benamata musica popolare.
La forma embrionale del famigerato sound del futuro, quella “della ricerca sonora”, è esistita quando ha fatto sue idee di linguaggio e di progresso, talvolta di concetto e – solo molto raramente, perché non siamo tutti Schöenberg o Schaeffer – di scoperta. Molto meno, con annessi goffi risultati di autocitazionismo, quando ha ricorso alla popolarità, diventando lingua franca del pop.
Ecco perché, senza più SOPHIE e con i Daft Punk che si fanno da soli fuori dalla contesa, tutto questa storia risulta oggi molto più logica. Sì, “Random Access Memories” rimarrà un gran disco, ma che rievoca la memoria, già a partire dal titolo. Rievoca un passato per cui non c’è più spazio, nel futuro.
Con loro si è probabilmente concluso l’ultimo capitolo di questo lungo viaggio della musica elettronica alla ricerca di se stessa, fuori da se stessa.
*Google mi dice Selbst Prophetie.
**Escluse citazioni nel testo e titoli di paragrafo, la parola “futuro” compare in questo articolo 18 volte: lo que tu sientes se llama obsesion.
T. O'Neil, Warp’s Artificial Intelligence compilation predicted the sounds of today, yesterday, The A.V. Club, 2015.
Ibid.
A. Petridis, Daft Punk were the most influential pop musicians of the 21st century, The Guardian, 2021.
H. Hsu, Daft Punk Was About Nostalgia, Not the Future, The New Yorker, 2021.
P. Braithwaite, Mark Fisher’s Popular Modernism, Tribune, 2019.
S. Reynolds, The Rise of Conceptronica, Pitchfork, 2019.
M. Fisher, Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures, Zero Books, 2014.
S. Reynolds, Futuromania: Sogni elettronici da Moroder ai Migos, Minimum Fax, 2020.