Come si scrive di musica per il New York Times
Una chiacchierata con Giovanni Russonello, critico jazz e reporter di politica per la testata newyorkese
La storia è questa: un paio di mesi fa – mentre scrivevo questo pezzo – mi ero imbattuto in una serie di recensioni jazz del New York Times. La scoperta, oltre all’interessante piglio degli articoli, è stata il fatto che la maggior parte fossero a firma di un italo-americano, redattore per la sezione.
Per di più, aveva il mio stesso nome.
Quella firma era Giovanni Russonello, critico musicale e giornalista, corrispondente di politica – di cui scrive ogni giorno sulla newsletter On Politics – e di opinione pubblica. L’ho raggiunto, per farci una risata sulla divertente casualità del nome, ma soprattutto perché il suo curriculum è impressionante: Washington Post, The Atlantic, NPR Music, The FADER. E poi mi sono chiesto cosa fa, davvero, uno che di mestiere può dire di scrivere di musica per una delle testate più importanti al mondo.
La chiacchierata è stata piena di spunti sullo stato attuale del giornalismo – musicale e non –, su un ecosistema che genera le stesse perplessità anche dall’altra parte dell’Oceano e sull’uso delle parole in questa professione.
E ovviamente, di musica.
Ho letto della tua tesi di laurea, alla Tufts University, che aveva una particolare attenzione sulla storia afro-americana. Dai tuoi pezzi sul NYT mi sembra di capire sia un mondo che ti sei portato dietro, nel tuo lavoro. Come ti sei avvicinato a questo tipo di scrittura?
Sono sempre stato molto appassionato di storia, già al college, specie quella politica degli Stati Uniti. All’università avevo poi approfondito questo percorso unendo le dinamiche del Paese a musica jazz e sociologia, altre due grandi passioni, capendo che tutto mi stesse portando verso una direzione ben precisa. Del resto ascoltare un brano significa ascoltare una storia, è sempre stato il quid che ho avuto per iniziare questo percorso.
Suono da quand’ero molto piccolo, e scrivere di musica mi è venuto naturale: la considero una continua indagine a metà tra scienze sociali e umane. L’artista, come una situazione politica, ti racconta una prospettiva, una visione del mondo e della vita. Qualcosa che tu poi converti nella tua.
In parole, appunto. Come definiresti il tuo stile?
Sono sempre stato interessato ad artisti capaci di raccontarsi, quelli che ti aprono una finestra sul loro mondo in maniera unica, che puoi considerare una prospettiva inedita delle cose che solitamente ritieni scontate. Bob Dylan credo sia un esempio ovvio, in questo senso. Direi anche Max Roach, considerato il più grande batterista jazz di tutti i tempi, che da appassionato del genere ho sempre associato a questo aspetto.
Quando impari ad andare oltre la musica stessa, la tua scrittura ha tutt’altro impatto. In entrambi i casi – musica e politica, per ciò che mi riguarda da vicino – cerco di carpire la prospettiva della gente con cui parlo, di quello che ascolto e delle sensazioni che percepisco. Tutto ciò che poi metti nero su bianco passa da livelli di scrittura molto simili.
Quindi scrivere di musica non è solo ballare di architettura, come ci hanno insegnato, ma quasi più come scrivere di politica.
Decisamente, per certi aspetti è la stessa cosa. In America se copri una news al giorno non stai solo descrivendo la battaglia tra repubblicani e democratici, devi andare molto oltre. E devi farlo anche se il gergo di questo giornalismo tende a piegare le parole verso un uso tradizionale e familiare, deviandole sempre su una frequenza che le rende stranamente comprensibili, per quanto lontane da un linguaggio comune.
La realtà, anche per questo specifico settore, è che più ti avvicini alla giusta prospettiva sulla notizia e più riesci a far distenderle, quelle parole, a farle risuonare in maniera più chiara e davvero convincente per raccontare i fatti. È quasi un fattore musicale, quello che c’è bisogno di integrare al racconto.
Sei originario di Washington, dove hai portato avanti la tua visione della musica per un periodo significativo di tempo: che città è, per farsi le ossa in questo mestiere?
L’ho vissuta parecchio, appena dopo l’università. Nel 2010 ho dato vita a Capital Bop, una webzine che si è presto trasformata in collettivo che organizzava concerti ed eventi, un riferimento sia per chi scriveva di musica che per chi la faceva, in città. È stata un’esperienza che mi ha aiutato molto a capire da vicino il cambiamento di un posto che si stava gentrificando, a osservare e capire le dinamiche delle politiche governative in relazione al valore della musica. Per ottenere un cambiamento individuale e sociale mi sono impegnato per coinvolgere sempre gente che avrebbe potuto dare un valore aggiunto a quella scena, ma che non avrei mai conosciuto se non avessi insistito con le mie idee.
La musica di Sanders ha sempre suonato sia come un luogo che come un'emozione pura, e i suoi lunghi e armonicamente costanti pezzi riescono quasi a disabituarti all’idea che esista un inizio e una fine. Oggi, perdere la cognizione del tempo è quasi impossibile. In "Promises", il più grande regalo che Shepherd ci ha fatto è che, piuttosto che emulare qualsiasi stile o genere dal lavoro passato di Sanders, ha trovato un’informazione non musicale al suo interno.1
Ti occupi principalmente di jazz, ma la tua recensione di Promises mi ha fatto pensare alla coincidenza per cui una cosa che sembrasse arrivare dal passato abbia in realtà stimolato un tipo di vocabolario molto più moderno, per chi ne ha scritto. È uno di quei casi in cui quasi per osmòsi la scrittura diventa più affascinante.
Beh, per me deve essere così a prescindere. La prima cosa che faccio quando scrivo di musica è far parlare la rivelazione che mi suscita. Il sentimento di eccitazione, di scoperta che viene dall’ascolto puro. Questo spesso si traduce nel fatto che il tuo flusso di coscienza ti farà usare termini capaci di spiazzare il lettore, o parole molto meno convenzionali del vocabolario del critico musicale “più classico”. Se dici, ad esempio, “questo riff di sax è così penetrante e scrosciante, sembra ispirato dalla prima R&B”, o cose del genere, penserai: certo, è piuttosto chiaro, didascalico al punto giusto, e fornisce anche un contesto storico molto preciso su quello che stai dicendo.
Quello che non fa, però, è dare una prospettiva autentica, quella che ti può invece dare un’immagine astratta, quasi espressionista, ovvero quello che ti catapulta davvero dentro la musica. Il più delle volte è bene privarsi di queste strutture un po’ troppo piacione e autodescrittive, immergersi nelle vere emozioni.
Ecco: e questo, dal tuo punto di vista, come sarebbe ideale tradurlo, in parole?
Promises era perfetto in questo senso, perché ignora ogni astrazione di genere e classificazione, del modo in cui si fa (e per chi scrive, si scrive) musica, in modo tradizionale: un musicista elettronico che fa un disco con una leggenda del jazz, accompagnato da un’orchestra imponente, in un arrangiamento che innesta velati strati di blues, riferimenti quasi gospel e tantissimi altri microelementi dall’approccio così diverso l’uno dall’altro.
Ci vuole apertura, curiosità, un’indagine lessicale costante. Peraltro, se ci pensi bene, il nostro vocabolario traduce significati che per quanto ne sappiamo potrebbero avere avuto completamente un altro senso, quando sono stati coniati. Ma quelle sono le parole e tu ti devi adattare, giostrarle come stessi prendendo nota delle tue emozioni, intercettando anche concetti molto lontani dal sentimento più frettoloso delle cose.
Mi interessava parecchio il fatto che per Capital Bop avevi pensato a interviste in luoghi meno tradizionali, e anche la tua Critic in Residence all’Ace Hotel di New Orleans è stata realizzata come conversazione da un taglio diverso dall’intervista “già fatta”. In questo mestiere per fare cose davvero interessanti serve anche portare le parole in posti diversi, in tutti i sensi: anche fisicamente.
Assolutamente. Sono sempre alla ricerca di nuovi modi per descrivere l’esperienza dell’ascolto musicale, del resto credo ci si annoi presto, se ci si ripete. Guarda, mi è venuto in mente il fatto che tempo fa avevo usato la parola incendiary (incendiario, ndr), a un certo punto, su una recensione jazz. E ho fatto questo ragionamento: perché si dovrebbe scegliere una parola del genere, così legata a qualcosa di visivo, per descrivere della musica?
La risposta è che sia che stia parlando di fiati su un pezzo di James Brown o che mi stia riferendo ad un assolo di D'Angelo, per me non ha importanza: vincolarsi ad usare un pacchetto di concetti per generi e per artisti non fa altro che portare allo sfinimento la tua scrittura. Sarebbe come riciclare i tuoi stessi pensieri. Quindi sì, portare le parole a scoprire posti nuovi rimane fondamentale.
È un po’ la stessa filosofia che ho voluto ci fosse in quei dialoghi dal vivo, perché se le parole non si muovono in modo coinvolgente l’artista risponderà in maniera sciatta, restituendo ben poco all’interazione che cerchi. Così come in forma scritta, dove il lettore ben presto smetterà di pensare, e del tuo articolo non gli sarà rimasto niente.
In base alla tua esperienza, quanto tempo ci vuole per scrivere davvero e bene di un disco? E quanto i social hanno influito nella trasformazione di questo fondamentale?
Io spero, ma ne sono anche abbastanza convinto, che questo fenomeno di dover essere sul pezzo – ed esserci immediatamente – sia qualcosa che si astrae dal vero giornalismo musicale. Perché quando è vero te ne accorgi, parla per chi scrive e per il modo in cui fa suo quel mestiere, altrimenti è come fare un altro lavoro. Se penso a una instant–review di un disco, tra le righe leggo solo gli effetti di qualcosa scritto sotto enorme pressione, il risultato di qualcosa che si è tentato di metabolizzare in tempi rapidi per farlo uscire.
Tra qualche anno, guardandoci indietro, non credo che penseremo ai social come un luogo in cui abbiamo davvero imparato qualcosa. Se penso a Twitter dico: certo, ha dato voce e possibilità di espressione a persone che si sono anche rivelate interessanti, che hanno portato dibattito e coscienza su movimenti nuovi, talvolta musica e arte. Ma prendi Whack World di Tierra Whack, ad esempio: è un disco di quindici brani che dura quindici minuti. Cioè uno ciascuno, così che ogni pezzo possa avere un video lungo il giusto per essere caricato su Instagram. Cose del genere credo siano davvero influenzate dal modo in cui i media trattano la musica oggi.
Serve tornare ad avere una sana curiosità, per le cose che ascoltiamo, per i pezzi che leggiamo. E dico questo nonostante alcuni dei magazine con una lunga storia alle spalle siano ancora dell’idea che le cose più istantanee funzionino. E sì, di fatto sono ancora lì e riescono a fare il loro, ma questo credo che prima o poi respingerà comunque una buona fetta dei lettori più attenti.
Di fatto, anche se è retorico, è un’epoca in cui dire che il giornalismo musicale sia un lavoro è quasi utopia. Ma nel tuo caso lo è davvero: che orizzonte vedi per chi si approccia oggi a questa professione?
Credo che ci sia ancora il desiderio di scrivere di musica, e c’è gente che lo fa bene, proprio perché quel desiderio ce l’ha e lo mette in pratica. È anche vero, facendo più i materialisti, che se non ti viene pagato uno stipendio per farlo risulta tutto più difficile.
Posso dirti di essere davvero migliorato proprio perché il mio lavoro è scrivere, tutti i giorni. Mi è capitato di rileggere pezzi scritti da icone che hanno varcato gli stessi corridoi, al New York Times, e la maggior parte delle volte mi soffermo a confrontare la loro penna agli esordi e poi dieci anni dopo: la differenza è lampante. Ecco, la mia preoccupazione, come credo quella di molti altri, è che se quest’arte diventa insostenibile economicamente sarà difficile vedere una carriera spiccare il volo in questo senso, come molti dei nomi che ce l’hanno fatta perché ne hanno avuto opportunità.
E cosa c’è nel futuro del giornalismo musicale a livello di sostenibilità economica?
Non so fare previsioni specifiche, dipende davvero troppo da forze che vanno fuori dal nostro controllo. Internet stesso, che è ormai da anni parte integrante di questo settore, potrebbe improvvisamente cambiare in modo radicale, e ad oggi non sappiamo come. Google e Facebook saranno ancora i capisaldi dell’economia che decide le sorti del web? Esisterà un compromesso per cui l’advertising riuscirà a pagare chi scrive online? Lo stesso sistema di media regulation dei governi potrebbe avere un impatto determinante per il destino di un mestiere come il critico musicale, per dire. È tutto molto imprevedibile, ad oggi.
In questo senso, quale sarà il tuo approccio al futuro?
Per quanto mi riguarda sono contento di poter continuare a scrivere e di farlo con ancora più frequenza. Mi concentrerò su editoriali e longform, cercando di mantenere sempre questo interessante intreccio tra la politica, i movimenti sociali e la musica, gli elementi di cui si nutre principalmente la mia scrittura. Mi sento fortunato a poter fare ricerca, scrivere di dischi importanti così come potrei farlo di tanto in tanto di obscure jazz, ricevendo comunque lo stesso numero di feedback da chi legge. Tutto questo, nonostante i tempi suggeriscono un dilatarsi perenne delle passioni e degli interessi delle persone, è confortante per il mio lavoro.
Del resto parte tutto dalle domande giuste.
Sì, e non lo dico perché tutto questo abbia bisogno di diventare qualcosa di naïf e circoscritto a una filosofia di fare le cose, ma perché altrimenti sembra sempre come se perdessimo delle opportunità per farle (e scriverle) meglio.
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La foto in copertina è di proprietà di Paul Bothwell/CapitalBop.
G. Russonello, Pharoah Sanders and Floating Points Meet in the Atmosphere, The New York Times, 2021.
"Tra qualche anno, guardandoci indietro, non credo che penseremo ai social come un luogo in cui abbiamo davvero imparato qualcosa.", "Serve tornare ad avere una sana curiosità, per le cose che ascoltiamo, per i pezzi che leggiamo." Concordo appieno. Ottima intervista come al solito. Bravi entrambi i Giovanni.