Noi, loro, l'oro (del rap), con Tommaso Naccari
O di come Fabio Rizzo è diventato Marracash, una volta per tutte
Contrariamente alle mie abitudini di ascolto—abbastanza lontane dal rap—, la storia di Fabio Bartolo Rizzo mi ha sempre restituito elementi di rottura, di fascino occulto e per qualche strano motivo magnetico.
Il suo modo (e il suo mondo) fatto di essere insieme artista, persona e voce narrante delle vite parallele di entrambe queste progressioni, ha messo in luce aspetti come pochi (direi specie nel mercato Italiano) sono stati in grado di fare. Per di più, appunto, con una voce, un tiro e un’impronta che viene e dipende dalla musica che parla di strada, sentimento, insuccesso, sentimento per l’insuccesso. In uno spaccato discografico in cui adesso che è giusto che il rap stia lì, nessuno ci aveva detto che avrebbe saputo raccontare le nostre debolezze come moderni De Andrè.
Insomma, ho provato a capirci di più, arrivati alla seconda volta, nel giro di pochi anni, che questa cosa mi ha bloccato ad ascoltare (ed ascoltare meglio) quello che questa personalità e insieme la sua musica erano, a piccole ma decise dosi, in grado di restituirmi.
Ho chiesto a Tommaso Naccari, che scrive di rap da una vita e che ha una newsletter, Paper Boi, di spiegarmi più a fondo (e con luce più a fuoco) cosa c’è, di Marracash, che riesce ad avere così successo. Soprattutto, dal punto di osservazione di chi quel successo lo ha fiutato, imparato a conoscere e poi visto, molto prima che potesse definirsi per tutti.
La scorsa settimana ho letto quella che era la sua instant-reaction1 a NOI, LORO, GLI ALTRI, e questa sarà una reaction alla reaction, ai punti della storia (e delle storie) che Tommaso ha messo in luce, sul disco.
«NOI, LORO, GLI ALTRI arriva probabilmente nel periodo di clash più totale della carriera di Marra: è al contempo estrema soddisfazione e l’incredibile coito interrotto, che da palazzetti sold out che potevano praticamente essere uno stadio è diventata pandemia globale».
La stessa sensazione—quella di “coito interrotto”—sembra parte integrante anche della tua analisi: trovi sia il disco definitivo/definitorio di Marracash come artista, ma l’impressione che ti restituisce è più simile alla chiusura di un cerchio.
È una cosa su cui la sua stessa carriera si è basata, si è evoluta e poi è arrivata qui: ottiene il successo con Marracash—nel 2008—e poi lui stesso decide che quella cosa è troppo. Quindi fa un disco, Fino A Qui Tutto Bene, che io definirei “sperimentale”, per il rap Italiano (che però, contrariamente al titolo, va molto male). Quindi di nuovo rosica, ci mette un po’ a far uscire cose nuove, fino a King del Rap: forse il meno coeso della sua discografia, ma quello che anticipa tutta la grande festa del rap nel nostro Paese, che di lì a poco avrebbe stravolto il mercato discografico.
Arriva Status e sì, finalmente si percepisce un grande strappo, ma sembra comunque che la gente, in qualche modo, non gli riconosca sul serio meriti, successo. E se da un lato questo è frutto della la sua eterna insoddisfazione, dall’altro è proprio il mondo, fuori, che in qualche strano modo glielo nega. Voglio dire, due anni fa—con il disco migliore in Italia—, la pandemia blocca i sold out di decine di forum e palazzetti, e fondamentalmente qualsiasi sfogo al suo successo.
E oltre alla fatalità/casualità temporale, dove inseriresti questo capitolo a livello di percorso e di idee dell’artista, più che della sua fama?
Per quanto ne so doveva essere un’appendice all’album precedente e chiamarsi Persone, poi ha preso vita tutta sua. Come carattere, cosa che ha confermato in un’intervista qualche giorno fa, chiudeva un ciclo iniziato con Status, passato appunto per Persona e poi culminato con NOI, LORO, GLI ALTRI. Anche in questo caso ci sono sliding doors e casualità di mezzo, nel senso che forse senza pandemia sarebbe arrivato un San Siro in poco tempo. E magari questo disco non sarebbe esistito, o non esattamente per com’è esistito.
Quella sorta di hangover da insoddisfazione di cui parli è un po’ il cruccio dei migliori, come Cristiano Ronaldo che si impegna maniacalmente per arrivare al top ma poi vede Messi strappare sempre i favori della stampa, perché il suo talento è naturale e non costruito attraverso l’impegno. Esiste questo aspetto, nell’idea del Marracash artista (e soprattutto persona)?
Sì, e lo conferma nel monografico su Rolling Stone. Guarda, la differenza principale, se vogliamo fare un paragone semplice, è quello che dice Gué, che in quel numero ammette tranquillamente come il suo amico sia il miglior rapper del Paese. Lo stesso amico che, di contro, a quella domanda continua sulla linea di quello che si deve impegnare di più, che ha sudato per arrivarci ma che rimane lì a rimuginarci sopra. Ché quello è il suo ruolo.
Quindi l’unica persona ad essere veramente consapevole del percorso intrapreso ma anche la più severa e insoddisfatta con se stessa.
Io credo sia più che altro la reiterazione di questa cosa, sempre latente da qualche parte nel suo io, di non sapere godersi appieno il successo. Come i racconti sulla madre che gli ricordava quanto la vita fosse fatta di mille problemi—che anche qui ritorna—o quando qualche anno fa diceva «‘Sta generazione che è più povera di quella precedente / Tranne il qui presente».
Qui tira fuori Mark Fisher («Riesco a immaginare più la fine del mondo / Che la fine della differenza sociale»), che per chi fa parte di una certa bolla fa anche un po’ ridere, sono concetti che conosci già. Mentre per lui è un altro input da passare al suo pubblico per continuare a spiegare quel senso di insoddisfazione. È qualcosa che fondamentalmente diventa più importante del successo stesso.
Del resto uno che ce l’ha fatta raccontando la sua maturità, con il rap (e in Italia) accende diversi paradossi.
Guarda, direi che Marracash ha sdoganato questa lettura già da tempo, quindi adesso dire che è bravo a leggere nelle debolezze della società non fa più notizia: è così. E la differenza sostanziale con Gué—per tornare a un paragone che ci è utile—rimane il fatto che il rap del bragging non è una roba culturalmente accettata in Italia, non può mai diventare (davvero) pop. Quindi il contesto è in un certo senso telefonato, cioè quello che racconta lui non è (mai, veramente) un contesto Italiano. E in qualche modo forse è più lui che si sente incompreso, rispetto al Marracash preso da tutte le paure del caso.
Questa dicotomia torna spesso, come quando dici:
«Ora che anche i numeri certificano che Marracash è il rapper più forte d’Italia […], che cosa cercherà?»
Forse è lì, a metà tra la ricerca di sé stesso e quella di fare rap per far capire il rap, che la differenza tra i loro due pianeti—i più riconoscibili, dalle nostre parti—ha messo dei paletti ben definiti. Tu come la vedi?
Per quanto mi riguarda è una differenza quasi di approccio quasi politico, oltre che ideologico: Marra è uno zarro di Barona che vuole diventare un intellettuale, quindi in quello che abbiamo visto negli anni esiste davvero un percorso di maturità, un’ascesa. Di contro, Gué è un figlio della Milano medio–borghese, che vuole fare (o diventare) zarro. Come in una sindrome di Peter Pan, cioè alla costante ricerca dell’immaturità.
E se da un lato questo gli permette di fare la sua Fastlife, dall’altro è un po’ un paradosso, specie per i nostri tempi: trovo bizzarro qualcuno cerchi un percorso a ritroso, rispetto al concetto di ascesa e di maturità, la stessa di cui parlavamo. Semmai tentiamo, a volta sicuramente anche nel modo più sbagliato e malato possibile, di diventare una versione migliore di noi stessi.
Che poi sembrerà un dissing a Gué ma no, è la naturale constatazione della differenza, tangibile, tra i due—oltre che dei motivi in cui va cercata.
«Per la prima volta, Marracash si trova tra le mani il successo, quello vero. Non quello fatto di oasi nel deserto, come potevano essere i suoi singoli che hanno funzionato di più, a partire da Badabum Cha Cha, ma quel tipo di onorificenza che ti mette in un certo tipo di Hall Of Fame».
Quanto c’è di quella capacità di raccontare, in Marracash, nel motivo per cui è culturalmente accettato come “di successo”? E questo al di là dei generi e di dove attecchisce, scivola o si aggrappa un pezzo e un disco, in classifica.
Per quanto quello che sto per dire è positivo non mi viene un modo positivo per dirlo: esclusi Fino A Qui Tutto Bene e King del Rap, le sue modalità di narrazione sono state quasi sempre le stesse. E questo per dire che non è tanto Marra che ha capito cosa dire e come dirlo—e sarebbe banale dire che 10-12 anni fa era già avanti, in questo senso. Quanto più chi lo ascolta, che ha capito davvero cosa ci fosse dietro.
Ha colto lo zeitgeist esterno, ma quello suo lo conosceva già da tempo, con le stesse citazioni, situazioni e discorsi. La sua è una scrittura quasi da romanzo Americano, fatto di critica sociale con un io fortemente protagonista, la vittima di chi gli sta intorno e allo stesso tempo l’artefice dei suoi mali. E questo, semplicemente, funziona.
E anche un po’ l’occhio che vede (quindi racconta) entrambi questi aspetti.
Esatto, ed è interessante che si creino dibattiti su questo aspetto specifico, ma credo che anche nel caso il rap non fosse mai del tutto esploso, in Italia, nessuno sarebbe comunque in grado di scrivere come Marra. Esiste ed è sempre esistita una sua maturità, adesso banalmente anche un fattore anagrafico. Adesso esiste anche la comprensione di sapere cosa gli serve davvero.
Però, per tornare all’equivoco del successo spiegato oggi,
«mentre Marra va su, tutto intorno si sgretola, si continua a parlare di rap in classifica, ma alla fine esclusi sparuti episodi, quello che va in classifica non è mai rap, perché del rap mancano le fondamenta della cultura nell’ascoltatore».
Una volta un rapper mi disse «In Italia non capiremo mai veramente il rap perché è un genere giovane, popolare e nero e l’Italia è un paese vecchio, bianco e borghese». Ed è difficile dargli torto: per me il vero pop Italiano rimane un’altra cosa, perché ad altre cose si associa e altre cose esprime.
Quello di Marracash rimane un racconto Americano, romanzato, e mi stupisce anche che l’Italia abituata ai cantautori e soprattutto al loro specifico paradigma possa immedesimarsi in questo percorso. Non significa che in Italia non si rappa e non si facciano soldi, quanto più che i pezzi che spiccano, specie dagli album che vendono tanto e dominano le classifiche, sono, in fondo, dei pezzi pop.
Nel caso specifico di Marra è più un riflesso incondizionato: lui stesso ha ammesso di essere cresciuto con la madre che guardava Canale 5 e ascoltava solo Radio Italia, e puoi scorgere delle affinità anche nelle linee melodiche, nei ritornelli che scrive e che spesso affida ad altre voci: sembra aver sempre avuto paura di fare quel passo definitivo. Poi, non ci piove che il suo percorso nella musica sia stato chiaramente differente, lontano da quel pop, specie se inteso come “popolare” per ciò che racconta.
Sempre a proposito di narrazione, dicevi che:
«NOI, LORO, GLI ALTRI è un disco incazzato, è un disco amaro. È un disco complesso, per cui l’instant reaction del first listening probabilmente non gli renderà merito: prometto di tornarci a mente fredda e approfondire – o addirittura cambiare – le mie opinioni».
Hai trovato chiavi, risposte o domande diverse, rispetto a quelle che ti eri fatto all’inizio?
Credo che più o meno il giudizio rimarrà quello. Più ho continuato ad ascoltare più ho percepito una differenza fondamentale, con Persona, che era un disco “di testa”. Questo è invece molto più “di pancia”, al di là di tutte le riflessioni, la sua costante autoanalisi e le paranoie.
Rimango del parere sia un disco scritto abbastanza di getto: magari riascoltandolo tra qualche anno invecchierà peggio di altri capitoli che oggi vediamo dietro, nelle gerarchie. Mi sento di dire, però, che è la sua opera in grado di girare davvero l’obiettivo verso l’esterno, più che verso se stesso. E questa cosa ha ottenuto un impatto ancora maggiore, rispetto al passato.
«Sembra, per quanto macabro, una sorta di testamento di Marracash. Mi ha lasciato una sensazione di insoddisfazione che non è reale, mi ha lasciato come un vuoto, come se fosse finito qualcosa. Non so se sia un’epoca, se sia un percorso, non ne ho idea, ma NOI, LORO, GLI ALTRI sembra una fine».
Cosa c’è dietro questa sensazione con cui chiudi il pezzo?
Non ti so dire con precisione, ma banalmente mi sono accorto che CLIFFHANGER, il brano che chiude il disco, sembra qualcosa scelto per dare la sensazione di “fine”, e insieme un’altra vaga impressione che ci sia qualcosa lasciata comunque fuori. Come in un film destinato al seguito. E in teoria, sempre tornando alla tesi sul romanzo Americano, rispetta il cliché del grande colpo di scena conclusivo. Non riesco a immaginare grandi colpi di scena, però: sono convinto che alla fine di questi capitoli, specie se sono comunicanti, tra loro, lui ne esca abbastanza stanco, svuotato. Ha dato tutto, ha detto tutto.
Se è vero che alla fine della trilogia era Fabio Rizzo che ascendeva a diventare Marracash—in questa sorta di battaglia definita da lui tra la persona e l’artista—non credo lui stesso sappia veramente cosa ci sarà dopo. Quello che so è che per quanto possa cambiare lo spettro di cose intorno a lui, la sua penna e la sua musica sono sempre stato in grado di reagire.
E questo, in fondo, è quello che lo ha portato lì, dov’è adesso.
Tommaso è anche su Instagram.
Se non metti L’Ultimo
Qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter, a volte anche un po’ di fatti miei.
L’inizio della fine
«Non ci sono buoni, non ci sono cattivi, non ci sono eroi. È solo una storia umana», ha detto Peter Jackson al New York Times. «E non è un film sullo scioglimento dei Beatles, ma mostra il momento specifico, della loro storia, che si potrebbe definire come l'inizio della fine».
Non ho ancora visto per intero (sigh) Get Back, ma se tu l’hai fatto, The Guardian ha messo a disposizione un form (qui) che raccoglierà per un articolo i racconti più sorprendenti / commoventi / emozionanti eccetera sul documentario.
L’inizio della fine (x2)
Sono stato al listening party di Arca a Londra, che chiude la quadrilogia dell’universo—Kick. Da Martedì, sono usciti in sequenza KICK ii, KicK iii e kick iiii, che seguono il capitolo iniziale, finito in nomination ai Grammy lo scorso Marzo.
Su Stereogum, KicK iii è disco della settimana.
Prima di riordinare i capitoli e ascoltare tutto meglio, ho trovato molto interessanti le parole che Alejandra Ghersi ha rilasciato in un’intervista per Vogue México, sulla narrazione di questa sua creatura:
«Ho immaginato che Kick avesse lo stesso arco narrativo di una festa, di un rave o del tempo per fare l'amore. C'è un inizio, l'energia si intensifica, c'è un climax e poi, dopo aver ottenuto quella liberazione, una quiete. Se ti piace guardare l'ultimo bagliore, questo sarà quasi un modo per ottenere tutti i nutrienti giusti. Allora ti renderai conto di essere in grado di dare un senso alla catarsi, alla purificazione, alla liberazione di ciò che è appena accaduto».
EDIT: mentre stavo per mandare questa newsletter, è uscito anche kiCK iiiii. Dentro, anche un featuring con Ryuichi Sakamoto.
Fanno cinquantanove tracce, in totale. 59.
Those where the days
Ha compiuto 25 anni Richard D. James Album, il quarto album di Aphex Twin.
Un dischetto qualunque che Rolling Stone definiva come «un elegante e inquietante pop futuristico» e Pitchfork «43.5 minuti di puro genio elettronico»
Post celebrativo.
T. Naccari, First listen Marracash (Grazie), in Paper Boi (paperboi.substack.com), 2021.