L'Ultimo Disco meets: Populous
Guardare la geografia delle cose più semplici come fossero sconosciute
The world has made such comet-like advance
Lately on science, we may almost hope,
Before we die of sheer decay, to learn
Something about our infancy; when lived
That great, original, broad-eyed, sunken race,
Whose knowledge, like the sea-sustaining rocks,
Hath formed the base of this world's fluctuous lore.1
Sono sempre stato affascinato dalla geografia dei posti remoti, dalle isole più sperdute negli oceani, dall’idea che esistano villaggi inaccessibili abitati da dieci, venti persone al massimo, che hanno costruito un’esistenza tutta loro. Da luoghi rimasti fuori dal tempo, o che hanno fatto della scienza del tempo un’idea molto diversa.
È un po’ la storia dei mondi perduti, quelle terre di nessuno restate a nutrirsi di una cultura della vita molto autentica, per quanto lontana dalla civiltà: isole lontane o vallate inaccessibili, luoghi che preservano sempre storie e leggende millenarie. Tutte trame che il cinema, ispirato dalla letteratura del tardo Ottocento, ha spesso raccontato come altri pianeti, piuttosto che frammenti di questo.
Di fatto, una certa familiarità con le isole, da Siciliano, ce l’ho pure, eh. E sì, è un’isola che in diversi spaccati sembra conservare quella natura esotica e dimenticata, da mondo perduto, per quanto sterminata e così dissonante all’interno della sua stessa terra. Per questo credo di aver rivisto abbastanza nitidamente i racconti di chi quei colori, quella discrepanza naturale e quelle vite a passo lento le conosce, le vive e le osserva, da un’altra faccia del remoto sud che non è troppo distante dall’unicità che suscitano le isole.
Stasi di Populous è un disco che indaga queste possibilità, senza, in realtà, utilizzare più di tanto l’immaginazione. Perché sono quarantatré minuti che ricreano sentimenti veri, che usano pastelli blu scuro e scattano la fotografia di un tempo che si è fermato, e con lui la prospettiva di luoghi che sembrano sentirsi osservati per la prima volta—per quanto lì da sempre. È una narrazione molto singolare e forse irripetibile di mondi perduti contemporanei, spaccati di terraferma diventati all’improvviso reconditi, come vivere, di colpo, al confine con qualcosa di diverso e mai veramente conosciuto.
Come mi racconterà, si tratta di posti molto più reali e vicini a noi, che comunicano un lento ritorno verso la vita, ma che hanno conservato (o meglio, reso possibile) un’anima, anche nella loro ferma, lunga e inconscia stasi.
Ciao Andre, l’ultima volta che ci siamo sentiti, in pieno inverno, mi avevi anticipato del nuovo disco, di una direzione diversa che premeva per uscire fuori. Alla fine il risultato è stato quello che ti aspettavi?
Sì, assolutamente, non faccio mai uscire qualcosa di cui non sono contento. Anzi, sono sempre ipercritico con me stesso, mi capita di scartare demo e cose su cui ho lavorato per un sacco di tempo che magari potrei sfruttare in qualche modo. Se una cosa viene fuori è perché mi piace veramente. Avevo già cominciato a scrivere, quindi sì, sapevo sarebbe stato un mix di riferimenti tra strumentali hip-hop e suoni super diradati, in quel momento avevo più o meno tutto nella giusta direzione.
È un album in forte controtendenza rispetto alle sonorità dei tuoi ultimi lavori, per quanto la vera indole di Populous in realtà ha sempre avuto una certa affezione per l’elettronica da colori freddi—che qui ritornano anche nell’artwork. Di fatto, per quanto possiamo parlare di ambient, questo è un lavoro di forte identità, che non vuole riferirsi a cose affini.
Io sono sempre del partito “perché imitare quando puoi fare qualcosa di diverso?”. Quella volta chiacchieravamo dei Boards of Canada, e sì, per quanto siano ascolti sempre molto presenti non prendo mai come riferimento un’estetica così unica e irreplicabile, quando mi dedico alla scrittura. Stavolta, in particolare, ho veramente rimesso al centro le mie idee di sempre. Sinceramente sarebbe anche stupido fare il contrario, a dirla tutta: chi prova a copiare capisaldi di un certo linguaggio non riuscirà mai sul serio a emergere, è roba che il più delle volte fa specie.
Ti dico la verità, dopo diversi ascolti qualcosa mi ha fatto pensare a LIFE & LIMB, che riascolto ancora spesso, o i tuoi primissimi Quipo e Queue For Love.
C’è decisamente un ritorno al mio linguaggio delle origini, anche se LIFE & LIMB era più un progetto uscito di slancio alla roba chillwave dell’epoca (le prime cose di Toro Y Moi, Washed Out, Neon Indian ad esempio), abbastanza lontana dai miei dischi da solista. Tutto il suono che portava avanti quella scena alla fine si rifaceva molto a una determinata estetica anni Settanta e primi Ottanta, che non era mia intenzione proporre qui, in Stasi. Il mio riferimento è stato un ponderato mix tra l’ambient in forma pura e le influenze, sempre latenti, della scena di Bristol. Sono due cose che mi hanno sempre ispirato tantissimo.
Architettura del Mare, ad esempio, torna un po’ su quel pianeta lì. L’apertura, che è Orizzonti Bagnati dell’Adriatico, sembra un chiaro indizio al fatto che l’album si fa ispirare ma che in verità non cita mai, sul serio, qualcosa di già sentito prima.
Sì, Architettura del Mare tra tutti è forse il brano più connesso a cose che ho fatto in passato, anche con side-project. In generale tutto il resto è molto più velatamente riferito a sonorità più anni Novanta, ho avuto in mente anche le cose più strumentali di Portishead e Massive Attack, ad esempio, condensate poi nelle le ore di musica ambientale che ormai ascolto quotidianamente—e forse pure da troppo tempo.
A proposito di questo, per quanto i titoli delle tracce facciano vaghi riferimenti di racconto, mi ha colpito molto il sottotesto sonoro che è interlocutore ai confini di ogni traccia: c’è sempre questo gioco tra trame scure e sentieri luminosi, ombre e schiarite di luce. Ci si perde e ci si immerge nell’oscurità, poi, ad un certo punto, sembra sempre tornare il sole del Salento.
Era proprio questa la sensazione, era quello che mi restituivano quei paesaggi così diversi da come li conoscevo. Faceva veramente stranissimo uscire, fare una passeggiata al mare e vedere non ci fosse nessuno, in ogni posto, ad ogni angolo. Era tutto talmente fermo, statico e strano insieme. Secondo me da un lato abbiamo anche avuto, nella sfortuna, la fortuna di poter vedere certi posti come non li avevamo mai davvero visti.
Peraltro questo è un po’ l’equivoco, se vogliamo, attorno a un concept: pensare che l’ambient possa raccontare un momento storico è abbastanza fuorviante. Se riascolto il primo Eno non mi aspetto mi racconti gli anni Settanta, è qualcosa che non ha tempo. La mia impressione è che anche qui si possa parlare di musica che non si vincola ad un momento, ma vuole rimanere a prescindere.
Esattamente, non volevo incasellarlo in un periodo storico: volevo del tutto evitare l’album si collegasse esplicitamente al periodo, a prescindere. Quando ho iniziato a scrivere il disco non pensavo tanto alla stasi economica, a quella del mondo o della musica e dei live. Piuttosto mi riferivo alla stasi dei luoghi. Non c’è nessun riferimento al lockdown e al mondo che stavamo vivendo, non volevo in nessun modo che fosse quello il concetto. Avrei detestato l’idea di un comunicato stampa con robe del tipo “Ispirato dal lockdown e dall’emotività della pandemia…” e cose del genere: è chiaro che quello era il sentimento che tutti avevamo, non c’è bisogno te lo dica io, con questo album.
Sembra tu che cerchi di capire come sarà il futuro, ma ti godi anche un presente fatto di lunghe passeggiate introspettive. Penso a quello che succede in Luna Liquida, Sentiero Luminoso, Meditazione Urbana.
Sì, la mia intenzione era in effetti quello di fare qualcosa di più scuro di quanto facessi ultimamente, più influenzata da altri ritmi e mondi, da colori molto più sgargianti e positivi, se vogliamo. Ci ho provato, poi però quando ti confronti con melodie e mood che sai in qualche modo essere tue non puoi fare a meno di farle uscire, dare spazio alla parte di te stesso che ti caratterizza. Saltano sempre fuori ovviamente le melodie trip-hop, più trasognanti. La mia intenzione era di fare qualcosa di più introspettivo, che di per sé non sempre ha a che fare con la tristezza o con la parte scura di noi. Può anche essere qualcos’altro. E così è stato.
Conosco molto bene la tua anima da giramondo, non a caso Azulejos era un’ode a Lisbona e W continuava viaggi tropicali a diverse latitudini senza confini. Stasi, invece, lo hai dedicato a casa. Visto tutto quello che abbiamo detto sulla voglia di maturità, ci sono ancora posti da cui vorresti farti ispirarti per nuova musica, specie adesso che potremmo pensare di poter tornare a una vita più normale?
Forse sarebbe sbagliato partire già con un’idea precisa. Cioè, dirti adesso che vorrei andare in Islanda a registrare qualcosa, per esempio, sarebbe ingiusto, quasi come stereotipizzare quel posto prima di esserne veramente attratto, per qualche motivo. Secondo me bisognerebbe viaggiare e andare in posti nuovi, vedere cosa succede, a prescindere. In generale, però, se ti dovessi dare un indizio così su due piedi, adesso ti direi una piccola isola, come Lampedusa, le Eolie, Favignana o le Tremiti. Ho la sensazione siano quei luoghi capaci di darti così tanti punti di vista in un raggio d’azione (e di estensione) molto più ristretto, conservano una magia particolare che vorrei provare a capire da vicino.
Questo punto credo possa chiarire anche una cosa: quando hai iniziato a scrivere Stasi hai immaginato di portarlo in viaggio, dal vivo, con te? Anche per come hai pensato la promozione, in maniera molto autentica, sembra emerga molta intimità con questo disco, come se ti avesse comunicato sensazioni che vuoi far rimanere intatte.
Onestamente no, non ho per niente pensato a come potessi portarlo in giro dal vivo. Voglio dire, sarebbe stato anche un po’ sconsiderato: non abbiamo (tanto meno avevamo, al tempo) sicurezza di nulla. Già quando uscì W, programmato per uscire e pronto per la promozione, la pandemia aveva spazzato in pochissimo tempo ogni certezza. Io mi trovavo comunque lì con qualcosa di finito, qualcosa in cui avevo speso del tempo e in cui credevo, ma nel momento in cui dovevo solo capire come promuoverlo e portarlo in giro in maniera sensata, se ci fosse stata occasione. Nello stesso periodo in cui cercavo di comprendere come si sarebbero messe le cose ho cominciato a scrivere Stasi: l’ultimo dei pensieri a quel punto era la dimensione dal vivo, di entrambi.
Per il legame con quella vita lenta e per il contesto di cui stiamo raccontando, tu quando hai finito di scrivere cos’è che hai pensato, davvero, sul futuro? E cosa volevi portare, di Stasi, nel futuro che poi è stato?
Sicuramente volevo conservare il ricordo legato alla scrittura del disco. Ti dico la verità: il periodo in cui cominciai a mettere giù le idee per l’album, durante il primo lockdown, lo associo nonostante tutto a cose molto belle della mia vita. Al contrario del secondo, che emotivamente considero un disastro, ero stranamente molto felice. Voglio ricordare quei giorni in cui quella fase statica delle nostre vite mi faceva comunque stare bene.
E mi piace anche ricordare come questi pezzi uscivano fuori così diversi da quello che avevo fatto in passato, mentre vivevo quello stato di bizzarra tranquillità. Ero preso bene, che cucinavo, passeggiavo, contemplavo la natura, facevo cose nuove che rispecchiavano anche la produzione del disco. Dopotutto secondo me era anche incoscienza, dato che non capivamo sul serio quello che stava succedendo. E sì, per certi versi era anche meglio così.
Per come è venuto fuori, è stato persino un bene sia nato in questo modo. Io avevo proprio bisogno, di un disco come questo: è musica che comunica autenticamente e senza fronzoli, slegata dalla parte più superficiale della scrittura da classifica.
Sai cosa? Ad un certo punto ti rendi conto che non sei più un ragazzino, non puoi continuare neanche a essere scambiato per tale. Mi sono anche reso conto che, in un modo o nell’altro, negli ultimi anni venivo un po’ risucchiato in un giro, una scena musicale, come la scena indipendente Italiana, che per carità, apprezzo, ma di cui non mi sento esattamente di far parte identitariamente. Mi piacciono poche cose, è un circuito che non rispecchia davvero il mio credo. Quindi ho cercato di tornare alle origini e dire: sì, mi piace farti ballare, mi piace anche fare i dj set un po’ matti, ma la realtà è che la mia vera indole era ed è tutt’altra cosa.
È stata un’immersione sorprendente ma parecchio utile, alla fine.
Decisamente sì, per me questo album sarà utile soprattutto a far capire a chi ascolta che di fronte non ha un ragazzino, ma una persona adulta, con dei gusti adulti e determinati riferimenti. Voglio tornare un po’ agli inizi, far uscire un po’ di sano carattere underground, che poi ho sempre sentito più mio.
Ascolteremo ancora questo Populous?
Credo di sì, credo questa cosa continuerà. Questa è davvero una fase della mia vita in cui penso sia arrivato il momento di capire cosa voglio fare da qui a cinque anni, sul serio.
Stasi è uscito l’11 Giugno, lo puoi ascoltare qui.
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Festus, da Atlantis: The Antediluvian World, Ignatius L. Donnelly, 1882.
Ottima intervista, album spaziale. Grazie!