curiosità /kurjosi'ta/ s. f. [dal lat. curiosĭtas -atis]. – 1.a. L’essere curioso, sia per abitudine sia in determinate circostanze: è di una c. veramente indiscreta; la mia c. era legittima.1
Con questo mantra in testa, mentre mi avvicino all'edificio che ospita lo studio di Marta Salogni, nel cuore di Hackney, ripenso a tutto quello che nella musica è stato fatto, partendo dal sentimento della curiosità. Sarà un metronomo essenziale della nostra conversazione.
Saliamo le scale per andare in studio, e mi tornano in mente mille domande in più di quelle già previste. In realtà, comincio a capire che non so assolutamente da dove cominciare: Marta è una personalità incredibile e un ingegnere del suono tra i più rispettati nell'industria musicale mondiale, e il posto in cui stiamo per entrare è culla di magie vere. Dallo stesso monitor che vedo adesso davanti a me, qualche mese fa una mail l’avrebbe messa su un aereo, direzione Texas, e recitava più o meno così: “hey, Bon Iver sta finendo di registrare i,i, ci dai una mano?”.
Grazie alla sua capacità di essere così spontanea, però, mi sento subito a mio agio fin dal primo secondo. Mi rendo conto di quanto sia normale per lei salire ogni giorno i gradini verso lo studio ed esprimere la sua arte, la sua personalità, dietro un mixer o un sequencer, costruendo le fortune di un album dall'altra parte dell'oceano, di un progetto commissionato da una major o dell'artista indipendente in rampa di lancio.
Ma in fondo, cambia veramente qualcosa? No, fa tutto parte dello stesso, disarmante desiderio di coltivare una passione, sotto forma di suono.
Così mi adeguo: non appena entrati in studio, noto che sta lavorando a un progetto su Pro Tools. Le chiedo subito di cosa si tratta.
Abbiamo appena fatto il playback dell'album che Suzanne Ciani, Katia Isakoff, Anil Aykan e io abbiamo prodotto da poco. Io ho suonato i nastri, Suzanne il Buchla, Anil voci e sintetizzatori, Katia sintetizzatori e il Theremin. Il progetto si chiama Inkolab, una serie di collaborazioni che Katia gestisce e che ci ha fatto trovare tutte insieme. Dopo una lunga jam al British Grove Studio abbiamo registrato molto materiale che abbiamo utilizzato per comporre quattro movimenti, quattro pezzi veri e propri. Variano dall'elettronica pura a composizioni al pianoforte (Suzanne è anche pianista ndr). È il primo album in cui compongo principalmente con i nastri: da ingegnere del suono solitamente mi occupo di produzione e mixaggio, questa volta c’era anche tanta composizione pura.
È stato un lavoro particolare? Voglio dire, da quello che dice la tua carriera fino ad oggi, hai messo le mani su una serie di progetti incredibili, facendo sempre qualcosa di diverso.
Ho sempre prodotto, ma ero anche interessata ad andare profondamente “dentro il suono”. Mi piace capire cosa determina il suono da un punto di vista psicologico, cosa significa e perché fa questo o quel determinato effetto. Puoi anche far suonare una chitarra come un pianoforte, se c'è una certa elaborazione: le tue orecchie non distingueranno più lo strumento originale dalla destinazione, come in un viaggio. La manipolazione del suono mi ha sempre affascinato, amo il modo in cui può influenzare l'ascoltatore e come la percezione di un brano possa sempre differire, in modo totale.
Il tuo approccio alla musica è sempre stato così lontano dal convenzionale? Non ti faccio uno di quei tipi che inizia con la solita idea di fare una band, quando prendi i tuoi amici di scuola e cominci a strimpellare in cantina. È stato un percorso totalmente diverso, immagino.
Sì, direi. Ho sempre avuto la necessità, l'urgenza di capire cosa c'è dietro la musica, la curiosità di indagare come arrivare al potere di manipolare qualcosa, potendo avere un feedback da altre persone attraverso questo. La storia, in breve, è che ho notato un vecchio mixer, nel retro di Magazzino 47, un centro sociale di Brescia. Un posto che frequentavo spessissimo durante il liceo.
Mi sono subito venute in mente tutte le domande del mondo, così ho cominciato a fare una testa così a Carlo Dall’Asta, il tecnico che lavorava lì. “Ehi, a cosa serve questo? Come funziona? Stai davvero dicendo che dietro questo mixer ho il potere di cambiare il destino di una performance e influenzare il pubblico?”.
Quella sensazione, come se mi stessi effettivamente esibendo senza essere sul palco – ma invece, dietro – era proprio come suonare uno strumento, per me. Mi dava tutto quello che cercavo.
E suppongo che a quell’età interessarsi all’ingegneria del suono fosse una passione tremendamente difficile da coltivare. Come hai fatto a entrare davvero in quella mentalità, a conoscere gli artisti che avrebbero potuto ispirarti verso quella carriera?
Ho scoperto la musica che mi piaceva davvero più tardi, quando ho focalizzato meglio le mie inclinazioni. Gli amici mi passavano dischi, vinili, libri, mi dicevano “hai mai sentito parlare di Delia Derbyshire? Devi assolutamente ascoltarla!”. Così, invece di scoprire le mie ispirazioni in modo del tutto casuale, come si può fare quando si è adolescenti, ho sempre cercato da sola la mia direzione personale, in maniera naturale e spontanea. Alla fine, ho creato il percorso che volevo seguire, per crescere insieme alla ricerca che stavo facendo.
Ho iniziato a interessarmi ai nastri e da lì ho scoperto, attraverso persone anziane e amici, tutto il mondo che c'era dietro. Ascoltando quanti pezzi Delia aveva composto con i nastri mi sono detta: com’è possibile? Poi Leslie Ann Jones, che ha lavorato con Miles Davis, è stato un altro grande riferimento per la carriera all'inizio. Quando ero al liceo ho scoperto la sua incredibile storia, è stata la prima fotografia di una donna in studio che abbia mai visto.
Ricordo di aver letto un articolo su di lei che lavorava per lo Skywalker Studio della Lucasfilm, lavorava con Davis ai Capitol Studios e vinceva i Grammy. È diventata il mio idolo.
Ascoltavi anche musica Italiana?
Mi piacevano molto i CCCP, Franco Battiato, Mina. Penso che Battiato, specialmente, sia stato sempre vent’anni avanti rispetto al suo tempo, e credo fortemente che ancora oggi nessuno lo abbia mai veramente capito. “La Voce Del Padrone” è uno dei miei dischi preferiti di sempre. Qui in Inghilterra è molto rispettato, così come molti altri italiani che, invece, non sono completamente compresi nel loro paese.
Poi direi Egisto Macchi, Piero Umiliani, Roberto Cacciapaglia e altri compositori degli anni Sessanta e Settanta. Guarda qui (sfila un vinile dalla collezione in studio, ndr): “Prati Bagnati del Monte Analogo”. Questo mi è arrivato per posta proprio oggi. Raul Lovisoni e Francesco Messina. Cramps Records, 1979. Una collana curata da Franco Battiato. Vedi, c’è sempre lui da qualche parte dietro la musica che mi piace.
Pietra miliare. Poi, se ci ci pensi, più torniamo indietro e più i pezzi da novanta aumentano: Berio, Maderna, Luigi Nono…
Berio era di un altro pianeta! Sì, davvero. Quella è un'epoca che mi manca pur non avendola mai vissuta. Mi sarebbe piaciuto tanto essere lì, vivere quegli anni, tra i Cinquanta e gli Ottanta. Sarebbe stato fantastico.
Assolutamente. E il tema potrebbe contenere grande retorica, ma mi sembra d’obbligo provare a indagare: perché noi non studiamo abbastanza la loro musica? Alla fine, se non sei veramente appassionato, questi nomi finirai per non scoprirli mai.
È strano, è come se guardassimo sempre all'estero per trovare i veri alti livelli della musica, dell'arte in generale. Abbiamo avuto pionieri dello sperimentalismo che il resto del mondo si sogna, ma non li abbiamo mai riconosciuti abbastanza. In un certo senso, forse si sono preservati rimanendo nella nicchia, senza essere distrutti dalla cultura pop. Credo che in qualche modo tutto questo abbia dato loro longevità. Chi ha una vera passione può andare a cercarli, conoscere l'importanza che c'è dietro quegli anni. Io li immagino come persone che hanno sempre fatto musica perché volevano farla, volevano fare dischi fatti per puro amore della ricerca e dei processi dietro un prodotto. Molti dei loro lavori scavano fino ad un livello psico-acustico, di come percepiamo la musica.
Ed è proprio per questo che hai scelto Londra, immagino.
Ad essere onesti, in Italia sentivo che non sarei mai stata presa sul serio. Non avevo un piano B, non volevo fare musica per hobby. E non volevo che qualcosa fermasse quello che stavo facendo per me stessa, per la mia passione. Nella mia città c’era solo qualche piccolo studio, niente di più. Avrei dovuto trasferirmi a Roma o a Milano. Fu Carlo a convincermi. È stato il mio primo mentore, quello che mi ha insegnato ingegneria del suono 101. Sono stata sua assistente per tre anni.
Mi diceva: “se vuoi andare avanti e andare oltre, continuare e crescere in questo campo, vai a Londra o a Berlino”. Pensai che no, non potevo andare a Berlino, non sapevo una parola di Tedesco! Non me la cavavo bene nemmeno con l'Inglese, ma almeno non ero così male. Appena dopo l'orale di maturità ho prenotato un biglietto e, beh, eccomi qui. Non sono più tornata.
Cosa c'è stato dietro quel processo? Intendo, oltre la strada fatta per lavorare nella musica. Come ti sei sentita ad abbracciare un mondo completamente diverso, mentre nel frattempo cercavi di realizzare il tuo sogno?
Diciamo che ho subito posto degli ostacoli sulla mia strada, a partire dalla lingua, come dicevo. Ho avvertito un distacco che partiva dall’esprimermi correttamente, c’è voluto un po’ per ambientarmi, tra babysitting e lezioni di Inglese.
Ho cominciato a lavorare in post-produzione, come runner, poi come assistente al sound-design per film e cinema. Il che, anche se era diverso dal mio vero sogno, era comunque legato a quel mondo lì, quello in cui si lavora a “come si fa un suono”. Ho accettato un lavoro come runner ai Molinare Studios a Soho e ho capito che il foley può insegnarti tutti i trucchi dietro la percezione uditiva: la post-produzione cinematografica mi ha insegnato alcune cose che mi tornano utili ancora oggi su Pro Tools.
Beh, non qualcosa di così scontato, comunque.
No, affatto! E quell’anno mi ha anche insegnato che non volevo lavorare per un'azienda. Non mi piaceva essere trattata come se fossi in una catena di montaggio, non sentendomi al 100% in controllo di me stessa. Ho lasciato la post-produzione e ho iniziato a tornare alla musica, facendo i miei primi passi negli studi di registrazione, chiamandoli uno per uno per telefono. Ho capito subito che nessuno ti regala niente: è stato difficile accettare il fatto che dovevo far valere prima il mio desiderio e la mia passione, ma era necessario. Lo dovevo a me stessa.
Ho iniziato a mandare lettere scritte a mano a vari studi di registrazione, quelli dove pensavo di poter avere una possibilità. Ma poi andavo ai colloqui senza il presupposto di poter ottenere qualcosa.
Ho iniziato a State of The Ark Studios a Richmond, di proprietà di Dan Britten, figlio di Terry, che è stato anche autore di Tina Turner e Michael Jackson.Fin da subito mi disse: “Non ti offrirò un lavoro, non posso pagarti”. Nella mia testa questo si è trasformato in un desiderio immediato di dimostrare quanto valessi.
Poi ti sei trasferita a Soho, Dean Street Studios – dove David Bowie ha registrato! –, agli Strongroom Studios a Shoreditch, ai RAK Studios e infine alla Mute Records.
Che è stato il mio primo studio da sola, dove ero sola e non in un complesso aziendale condiviso. Potevo finalmente avere un mio spazio e ho iniziato ad avere molto più lavoro: all'interno di un headquarter di quel livello, le richieste iniziavano ad arrivare.
Prima però ho fatto l'ingegnere e l'assistente per David Wrench. David è stata la persona che mi ha ispirato di più in questa fase: abbiamo condiviso gusti musicali e visioni artistiche. Era l'equivalente di Carlo in Italia, era il mio modello di cordata, il mio secondo mentore. Grazie a David ho trovato spazio proprio all'inizio della mia vera carriera da freelance: mi proponeva di aiutarlo nei progetti che prendeva, per lavori su artisti indipendenti che non poteva affrontare per motivi di tempo o di budget. Mi ha sempre coinvolto, ed è stato fondamentale. Non ha mai avuto paura di mettermi alla prova e lanciarmi nella mischia.
Quando hai capito che le cose stavano iniziando ad andare per il verso giusto?
Proprio allora, quando ho incontrato David. È stato il momento in cui ho capito che si può lavorare con la musica che si ama. E anche sopravvivere. La vita è fatta di sacrifici, ma questo non significa che debba essere sempre fatta di sacrifici.
L'apice di una carriera, o forse dovrei dire la zona di comfort artistico, arriva quando puoi permetterti di lavorare con gli artisti che ami senza sentirti ingombrante. Questo oggi è ciò che faccio davvero, ogni giorno. E tutti mi chiedono dei grandi nomi per cui ho lavorato: Frank Ocean, MIA, Goldfrapp… Sono artisti molto eccitanti con cui lavorare, e mi sento incredibilmente fortunata di poter collaborare con musicisti di tale fama. Ma alla fine della giornata, in studio siamo tutti sullo stesso livello: persone che hanno deciso di dedicarsi totalmente all’arte della musica.
Che rapporto hai con gli artisti con cui lavori?
Devi capire la loro visione, pensare a come tradurre una coesione sonora e insieme estetico-sonora. Il che è un qualcosa sempre nuovo, cambia soprattutto se stai lavorando su un singolo brano o su un'opera intera. Non si tratta solo di far suonare gli strumenti “nel modo giusto”, capisci cosa intendo?
Ti rendi subito conto di quello che vi viene chiesto o ci sono diversi gradi di feedback fra te e l’artista che mutano il processo?
Io parto sempre dall’abc, chiedo di tutto. “Che tipo di canzone è? Quali sono state le tue ispirazioni? In termini di suono, di percezione, come vorresti che suonasse? Puoi mandarmi qualche articolo, libro, dipinto che ti ha ispirato mentre componevi?” E così via.
C’è stata una situazione in cui le risposte a queste domande hanno smosso anche la tua curiosità? Magari un’occasione in cui hai capito esattamente cosa volesse l'artista da questo dialogo e sei arrivata anche oltre.
Quando sono andata in Islanda, per incontrare Björk. Mi chiamò per mixare “Arisen My Senses” e “The Gate” da Utopia. Ricordo che “Arisen My Senses” aveva un processo particolare, uno di quelli che ricordi per essere una dimostrazione unica del senso dell'artista dietro la musica.
Mi disse: “Immagina che io ti stia sussurrando un segreto all'orecchio e fuori c'è un casino incredibile, ci sono i fuochi d'artificio. La voce deve suonare come se fossi nel tuo orecchio: puoi sentirmi, la mia voce è molto nitida, ma fuori c’è un casino assordante”. Ho pensato alle frequenze: devono essere più basse, più alte, come si replica un'immagine simile?
Non posso parlarmi da sola all’orecchio, ho pensato. Per sperimentare un certo risultato, ho bisogno che qualcun altro venga effettivamente a sussurrarmi qualcosa. È molto semplice come spiegazione, ma tradurla nel brano ha portato a cinque bozze diverse. Alla fine, abbiamo deciso insieme la migliore. Il dialogo è fondamentale, così come la libertà di scambiare idee reciprocamente. E anche se non capisco al 100% quello che l'artista vuole dirmi, cerco sempre di proporre qualcosa, di proporre il mio pensiero sul concetto.
Sembra che tu abbia stabilito un rapporto molto speciale con lei, qualcosa di prezioso.
È vero, Björk mi ha lasciato ricordi meravigliosi. La sua generosità è stata importante per me. Lei è soprattutto molto diretta sulla sua visione, nel modo in cui descrive il significato dei pezzi: tutti i brani di “Utopia” hanno un mix molto diverso, perché vogliono veramente rappresentare il significato di quella canzone. Se un brano parla di intimità e di questioni veramente personali, il suono deve avvicinarsi a quello stato d'animo, in modo simbiotico. Avevo io la responsabilità di accentuare questi sentimenti, così mi ha spiegato con immagini molto vivide come voleva che il brano suonasse. Il suo approccio mi ha aiutato molto.
Cosa pensi dell’attuale contaminazione sonora, tra quello che ascolti e quello su cui metti le mani? Per il vostro lavoro significa concretamente qualcosa?
Penso che negli ultimi anni molti generi stiano facendo crossover: R&B e soul che vanno di pari passo con l'elettronica, molte trame che artisti come Frank Ocean hanno ispirato definitivamente, dandogli una svolta moderna. Non credo che oggi ci si possa specializzare in una tipologia molto stretta di suono, come gli anni Sessanta. Epoche così definite come il rock non esistono più. Allora, credo, la separazione era in grado di stabilire confini di genere per renderli speciali. Oggi si cerca paradossalmente il contrario.
Personalmente mi piacciono molto i nuovi produttori che riescono a unire classica ed elettronica, come Holly Herndon, Caterina Barbieri, Alessandro Cortini, Suzanne Ciani: per me è elettronica classica, è una nuova frontiera. Sì, è elettronica, ma potrebbe suonarla anche un’orchestra sinfonica. È una musica di alto livello, un crossover in cui mi rivedo molto.
Come si è evoluta la tua curiosità nel mondo del suono durante questi anni?
Ora mixo, registro e produco, mentre prima c'era molta più divisione dei ruoli. Ho imparato così, perché non c'era il budget per pagare persone diverse per qualità più specifiche, per diversificare il processo. Ma credo che sia stato un ottimo trampolino di lancio per diventare la mente dietro tutti i miei progetti. Penso che le persone alla fine si rendano conto di quanto tu tenga a qualcosa, e sono grata per questo.
Nonostante la competizione sia così alta, in questo ambiente, c'è davvero tanta umanità. Ho incontrato molte persone che hanno visto le qualità del mio lato molto personale, che mi hanno reso quella che sono, ancora di più.
La curiosità è un bene prezioso.
Tutti dovremmo averne abbastanza, proprio come Marta, quando entra nel suo studio, affamata di conoscenza.
Uno studio in cui è entrata anni fa, e da cui non è più uscita.
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guarda questo documentario di Roger Pomphrey su Delia Derbyshire e il BBC Radiophonic Workshop
https://www.treccani.it/vocabolario/curiosita