Il debito che abbiamo con Jon Hassell
Il pianto di una donna in una lingua straniera, Chet Baker su Venere, il sogno, il terrore, la possibilità
Il 13 Ottobre 1977, Jon Hassell si esibiva al The Kitchen, a New York, dove avrebbe dovuto presentare un’anteprima di Earthquake Island, insieme alla band con cui lo aveva registrato—tra cui figurava Badal Roy, che qualche anno prima aveva suonato su On The Corner di un certo Miles Davis. La cosa risultò presto complessa, per via dell’impianto fornito dallo spazio di performance sperimentale, all'angolo tra Wooster e Broome Streets, a SoHo. Tanto da spingere il musicista ad improvvisare uno show quasi completamente da nuovo.
Hassell, come racconta, cominciò a creare una serie di giochi di texture con tromba e tape loops – qualcosa che vedendo dal vivo oggi, credo, avremmo parecchia difficoltà a definire–, una linea di suono che univa ventiquattro tracce di mixer a improvvisazioni con i nastri. Ah, e anche un aggeggio niente male, appena scoperto, l’harmonizer. Con tanto di disc jockey del tape loop, a gestire i volumi del complesso arrangiamento dal vivo, su indicazione di Hassell.
Non male, per essere il 1977.
La spiazzata reazione del New York Times, nella recensione dell’esibizione uscita tre giorni dopo, cristallizzava l’esatto istante in cui lo stesso Hassell si rese conto di poter andare avanti e continuare ad esplorare le sue idee, tramutandole in possibilità. Brian Eno, che in quegli stessi anni viveva a New York, si era molto interessato a quel debutto che dava una voce profondamente psicologica e sociologica ad un ancora embrionale astrazione di world music, che faceva suonare la tromba come fossero dozzine di strumenti diversi e che, di fatto, stava inventando un genere.
Tanto che alla fine della serata, al The Kitchen, andò direttamente a proporgli di lavorare insieme.
Un quarto mondo è possibile
Del resto, Vernal Equinox era uscito appena l’anno precedente, cominciando a seminare già idee di un contesto che non solo avrebbe cambiato l’elettronica, ma le avrebbe fatto scoprire decisamente più da vicino che non c’era poi così tanta distanza, in realtà, dalla musica organica. Una vera e propria pluralizzazione, questa musica dell’altro mondo, che per quanto verosimilmente difficile da approcciare risultava cosa naturale e spontanea, per il trombettista del Mississippi.
La via per suggerire che ne esiste più di una, di musica possibile, stava per essere assecondata da un altro movimento viaggiatore, da un altro suono della diversità, sin dall’inizio alla base del suo credo. Era la ricerca ambient del compositore di Woodbridge.
I due iniziarono a frequentarsi, fra lunghe chiacchierate tra Park Avenue e il Mudd Club, con un’idea che premeva per uscire fuori. L’Inglese era a lavoro con i Talking Heads per Fear of Music, ma nel frattempo era intento a dare alla luce qualcosa che Hassell rese altrettanto iconico. Qualcosa che avrebbe cambiato—o forse generato propriamente—il concetto di world music: Fourth World, Vol. 1: Possible Musics.
Le sessions di registrazione si facevano al Celestial Sound, insieme a Aiybe Dieng, fido batterista di Hassell, e il bassista Percy Jones, e c'era sempre un apprendimento reciproco, tra loro, una sana tensione creativa. Hassell la descriveva come una di quelle chimiche quasi non-musicali, specie perché lui tendeva a miscelare un forte background di studi più classici alla passione maturata per l’avanguardia, dialogando con una grammatica di idee che Eno colse fin dal primo momento.
È in fondo la base della musica del Quarto Mondo, un’area immaginaria dove il Nord e il Sud collassano, la razionalità e la fisicità si dissolvono, la freddezza e il calore sembrano avere lo stesso significato. Un concetto che diventa politico, filosofico, musicale, la formula 1+3 = 4.
Era il simbolo di un incrocio idealizzato di influenze, cioè quelle del “primo mondo” (quello tecnologico) e del “terzo” (quello tradizionale). Insieme, a formarne uno che aspira ad essere sia la versione metaclassica e metapop dello stesso, diventando il quarto.
Di fatto, le possibilità cercate da Jon Hassell, partivano esplorando le convinzioni più metafisiche della musica. Frammentadole, facendole sue salpando verso porti sempre diversi.
Per navigare, senza mai voltare lo sguardo indietro.
India, Malesia, sogni e uomini universali
«Nel 1934, un ex missionario mormone diventato antropologo di nome Kilton Stewart», racconta Andy Beta su Resident Advisor, «si imbattè nei Senoi, tribù pigmea rinchiusa su una montagna solitaria, nella penisola malese. Come scrisse nel suo Pygmies And Dream Giants, era alla ricerca del cosiddetto uomo universale, uno studio che implicava test cognitivi, come il Draw-a-Person di Goodenough, alle tribù incontrate lungo il viaggio».
Secondo i Senoi, i sogni che rievocano piacere, come sognare di volare o di fare l'amore, dovrebbero essere continuati fino ad arrivare ad una risoluzione che, al risveglio, lascia qualcosa di bello o utile alla tribù, alla comunità. Nelle sue settimane nella tribù, giunse alla conclusione che quella società aveva qualcosa di diverso: non c’era traccia di violenza e irruenza, e questa semi–rottura dalla realtà era da ricondurre alla stretta connessione maturata con il regno onirico, alla loro interpretazione di contatto con esso.
Jon Hassell fu completamente rapito dalla teoria dei sogni Senoi, tanto da sintetizzarla nel suo Dream Theory In Malaya del 1981, trasposizione organica della vita delle tribù dei Semelai, situata nelle sterminate paludi della Malesia. Usando field recordings che riprendevano i rituali spruzzi d'acqua della tribù, Hassell, come scrisse nelle liner notes del disco, fece sì che “il ritmo di quell’acqua, così pieno di gioia, divenne forza generatrice e guida tematica dell'intera registrazione”.
Si trasferì di lì a poco in India, per studiare Rāga con Paṇḍit Prân Nath, cantante e insegnante di musica classica indiana, la cui voce nella derivazione hasselliana divenne tutt’uno con la tromba, un ponte indeterminato tra Lahore e il jazz, le colonne sonore dei film americani anni Cinquanta e Sessanta, Yma Sumac e Ravel.
Il risultato di queste esperienze fluiscono in un’idea di musica che non è classica moderna, non è prettamente una reminiscenza indiana o africana, ma piuttosto una tempra che mescola lo stato di sogno, terrore e fantasia in luoghi celestiali. Il volume due di Fourth World fu la via di mezzo tra il situazionismo di Guy Debord e la land art di Walter De Maria, due tra le menti da cui traeva maggiore ispirazione, fuori dal ciò che avesse a che fare col suono.
Il ciclo iniziato una sera autunnale a New York, dopo l’equinozio di primavera, stava andando spedito verso nuove frontiere sovrannaturali.
Più di una regione immaginaria
Nato e cresciuto a Memphis, Hassell aveva visto in prima persona alcuni dei più profondi cambiamenti di paradigma del Ventesimo secolo in musica. Studia da Karlheinz Stockhausen a Colonia, negli anni Sessanta, dove trova come compagni di classe i futuri membri dei Can, Holger Czukay e Irmin Schmidt. Tornato in America, collaborò con Robert Moog (sì, proprio quel Moog) e si trovò, poco dopo, a suonare nell'ensemble di Terry Riley, per l’iconico manifesto minimalista, In C.
L’incontro con La Monte Young lo introdusse alla parentesi Theatre of Eternal Music, ensemble che agì da vera e propria palestra di drone music, formando persino John Cale e Sterling Morrison dei Velvet Underground. Neanche a dirlo, fu un’altra di quelle porte girevoli che contestualizzano il significato di certe folgorazioni destinate a diventare eterne, che cambiano la storia.
«La musica orizzontale è come quello che succede dopo, cioè il 99,9% della maggior parte della musica»1, spiegava dopo l’incontro con Young, cominciando a interessarsi diffusamente alla nozione di ascolto verticale. «È possibile intercettare un intero nuovo mondo fatto di sovratoni, che è sopra ogni cosa»2. Era proprio al padre del minimalismo, che Hassell attribuiva il merito delle sue nuove e continue scoperte. Lo paragonava all’artista visivo californiano Robert Irwin, i cui dipinti e installazioni minimali sono «austeri al punto di essere appena percettibili»3, diceva.
Con Young, Hassell è diventato acutamente consapevole che poter trasferire la fusione astrale di tutti questi elementi fosse la via per una metafisica dei suoni, una finestra che si affaccia su culture indigene eppure occidentali, la combinazione mutante di antico e futuristico.
La musica possibile.
Aldilà di tutte le influenze assorbite e raccontate lungo la sua ultraquarantennale carriera, la sua vera visione sonora aveva un potere sconfinato nell’intercettare il dentro e fuori di ciascuna dimensione incontrata, un pianeta che si scorgeva nel più profondo delle derive jazz, dove l'elettronica si mescolava ai tamburi, gli strumenti più vicini al pop non hanno mai suonato così lontano dal pop, i suoni organici e sintetici hanno creato dolci cataclismi.
La tromba, retta dalle sue mani, ha spalancato le porte a nuovi modi del sentire, a volte ascendenti, altre discendenti.
Ad oltre quarant’anni da Vernal Equinox, l'estetica—Fourth World di Hassell si è infiltrata nei luoghi più remoti della musica, descrivendo regioni sconosciute e immaginarie e, sopra ogni altra cosa, una vera e propria cultura delle possibilità.
E sì, con Jon avremo per sempre un grosso debito.
«Tra la verticale e l'orizzontale, Hassell ha cercato una diagonale, una musica che può librarsi sul posto eppure scavare in profondità nello spazio interno di un suono. […] È un baldacchino di uccelli tropicali, il pianto di una donna in una lingua straniera, un insetto che ronza, un corno beduino che chiama attraverso le dune, il fischio lontano di un treno, Chet Baker su Venere, un gorgoglio alieno qui sulla terra.
In un equilibrio precario tra l'antico e il moderno, Fourth World parla al nostro presente, sia che cerchiamo di fuggire dal nostro mondo e immergerci più a fondo nell'immaginario, sia che cerchiamo di afferrare un passato che evapora rapidamente, e così la sua saggezza primitiva, in un'altra regione sconosciuta e immaginaria».4
leggi The debt I owe to Jon Hassell, una lettera—tributo di Brian Eno a Jon Hassell, pubblicata su The Guardian, nel 2007. il titolo di questa newsletter, chiaramente, è una citazione al pezzo :)
ascolta Jon Hassell in conversazione con Gilles Peterson nel 2015, su Worldwide FM.
Andy Beta, Fourth World in the 21st century, Resident Advisor, 2017.
ibid.
ibid.
ibid.