Quando uscì Limit To Your Love, nel 2011, era evidente—persino ad un giovincello ossessionato da cose perlopiù fatte da cassa dritta e sample, come me—che qualcosa stava cambiando, da qualche parte tra il pop e l’elettronica che entrava nella nuova decade.
Sì, era una cover, sì, era struggente e smielata, ma ad un certo punto partiva un basso che suonava come se un cuore stesse per esplodere dalla tensione: era qualcosa di così fitto di percorsi e idee a cavallo tra due o tre mondi diversi che aveva spiazzato una grossa fetta di mercato.
La combinazione di nervose ritmiche two-step e campioni R&B tritati dentro un vocoder, un soul elettronico à la Burial e quei colori fatti di desiderio tremolante, senza oggetto o contesto, erano diventati giusti, per chi ascoltava. E l’artefice era un ventitreenne, appena uscito dalla Goldsmiths di Londra, che suonava il piano e sapeva usare immensamente bene la sua voce.
Per me, l’album di debutto di James Balke rimane uno dei capisaldi degli anni Dieci, e nel Dicembre 2019 contribuii alla fantasmagorica listona dei dischi essenziali della decade, piazzandolo al secondo posto. Rivendico con ancora più sicurezza quella scelta, ma diciamo che è anche diretta conseguenza di quello che sto per dire, su questo pezzo.
Disclaimer: no, non parlerò della vita privata, ma dell’artista e della sua musica.
Life is not the same
Cos’è successo al James Blake degli ultimi cinque anni è abbastanza chiaro: dalle parole sussurrate in quella forma semi-digitale da robot umanizzato, il pop imperfetto del cantautore di Enfield è diventato sempre meno un marchio di fabbrica, sempre qualcosa di più lontano dal flirtare sensatamente col club, finendo per essere molto più semplicemente una sorta di diario in tempo reale di emozioni, in fondo, molto normali.
Blake non ha mai smesso di scrivere bene le sue canzoni. Il problema è, invece, come ha progressivamente cambiato la percezione del mondo a cui appartenessero, depotenziando le incredibili particolarità di tensioni gospel, ballate elettroniche e un lirismo gelido ma affascinante, pezzo dopo pezzo. Nonostante la serie di EP tra Hemlock, R&S e Hessle Audio ne avesse cristallizzato una chiara evoluzione stilistica, rimaneva artista capace di far parlare un piano in teatro e la stessa sera riempire un basement da qualche parte a Nord di Londra.
L’allora giovane promessa uscita fuori dal Sound of 2011 di BBC si diceva contrario alla commercializzazione del suo fenomeno: Limit To Your Love l’aveva immaginata nei club, piuttosto che su Radio 1. E questo perché sì, insomma: gli avevano fatto capire che quella roba lì, dopotutto, forse in altri palcoscenici ci stava molto bene.
Certo, mannaggia a loro, era evidente. Ma andava già bene così.
No?
Quella mutazione garage era nelle mani di un giovanotto che credeva fermamente in musica fatta di «ritmo, sound design e la forza di un’emozione sincera»1, eppure la sua interpretazione fatta di ansia digitale e voci glitchate ha di volta in volta aggiunto qualche patina di fastidiosa pulizia in più, a ingombrare fatalmente l’inquadratura.
Pur con qualche rischio in meno, le tracce di maturità pop avvistate per la prima volta in Overgrown, valsogli il Mercury Prize nel 2013, avevano ancora diverse sfumature post-club già sentite in iconici EP come CMYK, quando trasformava un synth in una trasposizione di paragrafi di Mark Fisher.
Per questo, direi che il vero bug di questa (voluta?) normalizzazione è sicuramente The Colour in Anything, dove gli ultimi lampi di quell’attitudine da resident Boiler Room che fa sold out alla Salle Pleyel di Parigi comincia a far deviare le strade.
Buona parte di quel mondo lì è diventato per lui un po’ il limite e la media, non la grande eccezionalità: l’imprevedibilità e il fascino di essere tra quelle cose avant—step senza spartito, mai incastrato nello stesso loop di genere, si sono assuefatte definitivamente, con Assume Form.
C’era davvero bisogno di questo?
Qui una volta era tutta dubstep
«In un'epoca in cui gli artisti vengono tallonati per ottenere informazioni di ogni sorta, allenati per rispondere [alle interviste] con risposte da comunicato stampa, l'album e RDJ rimangono misteri misteriosi, accattivanti e sfuggenti che implorano un'interpretazione. Per me, lui è insolubile, come un cubo di Rubik per un bambino daltonico, e Drukqs rimane il suo puzzle più enigmatico»2.
Siamo finiti a parlare di Aphex Twin perché boh, il fatto che Drukqs (datato 2001) fosse il quinto album di Richard D. James (come Friends That Break Your Heart lo è per Blake) e che arrivi dieci anni prima dell’omonima opera di debutto del nostro, mi sembrava una casualità troppo fatale da non sfruttare. E il motivo è semplice: Drukqs (al contrario di quanto sta accadendo per FTBYH) venne accolto piuttosto tiepidamente dalla critica. Ci si aspettava, da AFX, una svolta ancora più netta, dopo cinque anni di silenzio e un’immagine—e immaginario—ormai diventati iconica nella cultura club degli anni Novanta.
Due decenni dopo (e con la carta d’identità dello stesso con non-così-tanti-album-in-più dati alla luce, quantomeno non ufficialmente), Aphex Twin si è preso la cultura pop mainstream comunque, ma assolutamente a modo suo, senza cambiare una virgola di ciò che era in Selected Ambient Works: dichiarata fonte di idee anticipatorie che portano a Kid A, finito come sample in un disco di Kanye West, ispirazione per qualcosa come 30 cover da i più diversi artisti, to date (se non ti va di aprire il link, sì: ovviamente si tratta di Avril 14th).
Bene, che la regia faccia partire il servizio.
Tutto ciò che succede in Friends That Break Your Heart non è affatto “come fosse appena uscito dalla sua stanzetta”: sembra un pezzo di James Blake solo durante l’ultimo minuto, quando spesso arriva una soffice folata di archi a giocare con pattern elettronici, creando tutt’altro contesto. E pure qui, si tratta di una forte reminiscenza dell’ultimo capitolo, in cui la sua natura gospel di respiro moderno si adegua (più che far da traino) a tutto ciò che in maniera fin troppo normale fanno i cari vecchi trademark, il piano e la voce.
Dopo un po’ che ascolti, hai la sensazione (a margine un po’ inquietante) di essere incastrato nello stesso loop da quando l’album è cominciato. Otto tracce otto (in Show Me, con Monica Martin), e dal nulla pare uscire la vera voce di Blake—ma mi sa che è un attimo tardi. E c’è un altro fattore un po’ disorientante, che succede in Frozen (con JID e SwaVay) e nell’ingresso di SZA durante Coming Back: sembrano una boccata d’aria per il disco intero. In qualche modo, quando James Blake da la sensazione di essere lui, l’ospite del suo brano, la musica si apre a una forza diversa e più convincente.
Simile – in maniera casuale – alle circostanze in cui arrivò Drukqs—seppur con una pressione mediatica molto minore (Blake non è mai stato così fermo dalle pubblicazioni, negli anni)—da questo nuovo inizio ci si aspettava un cambio di passo che sembra tardare ormai da troppo tempo, più che una lunga storia sul valore dell’amicizia raccontata in accordi in minore, metafore auto–descrittive a profusione e blandi tentativi di cambiare il contesto con dei featuring.
Se Aphex Twin ha creato suite minimali e rimescolato dentro reminiscenze drone dei suoi inizi Warpiani, James Blake Litherland non è mai stato più lontano da quella scheggia impazzita capace di fare dj set come quello qui sotto, cantare divinamente una cover di A Case of You e scomodare l’ironia di Geoff Barrow dei Portishead, probabilmente piuttosto invidioso della sua incredibile versatilità.
A destra, un Burial selvatico che si rolla qualche canna.
Tra decine di recensioni entusiaste perché stiamo ascoltando la voce di un uomo finalmente felice (et simila), la cosa più interessante da dire su FTBYH proviene piuttosto da questo episodio di Switched On Pop (podcast del magazine Vulture), in cui si parla di un certo “ritorno all’armonia” in versione malinconica, qualcosa che, da Beyoncé a Frank Ocean, Blake ha influenzato nella tecnica e nel suo utilizzo contemporaneo. Avrà cambiato James Balke stesso, rispetto a un passato di questo tipo? Probabilmente non per il meglio, ma rimane un interessante approfondimento.
Bene, e questo era il motivo per cui quell’estratto, da un’intervista rilasciata ad Alex Needham del The Guardian dieci anni fa, suona oggi così lontano dalla realtà: dalle influenze di D'Angelo a Lil Wayne, da Snoop Dogg agli Outkast fino alla scoperta del club, tutto poteva dare un sentore diverso, di come sarebbero andate le cose. Che fare musica più familiare ai lettori di The Wire non significa quasi mai sentirsi arrivato, esibendoti al Chris Moyles Show. Siamo d’accordo che questi ultimi anni hanno dimostrato tutt’altro?
Blake, diciamocelo, era un po’ il Charlie Kaufman del nuovo pop, ovvero una personalità capace di scrivere film da candidare agli oscar e un anno dopo opere sperimentali che trovavi nei meandri di IMDb, e solo cercando bene. Ma quella rimane(va?) la sua incredibile forza.
Se tornassimo al 2011, ascoltando due accordi di piano su un basso dubstep che ribalta un brano folk come un calzino, sono sicuro che diremmo ancora quanto «la sua incomprensibilità non è un difetto. Anche quando è più impenetrabile, [l'album] ti lascia in uno stato di affascinante confusione: spesso non hai idea di cosa succederà dopo: non esattamente una sensazione che il rock e il pop attuali evocano»3.
Dieci anni fa, in fondo, tutto sembrava un po’ più chiaro, per quanto incomprensibile.
Se non metti L’Ultimo
Era da un po’ che avevo in mente di aprire una nuova sezione in coda, in cui parlare di cose slegate dal tema della newsletter.
Quindi eccoci.
Qui dentro ci saranno cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter, magari a volte anche un po’ di fatti miei.
Stanno (davvero) tornando i Boards of Canada?
La notizia è di qualche settimana fa, quando un like del duo Scozzese ad un commento su Instagram ha scatenato il dibattito sulle fan base in rete. Stando a quanto dice un utente su Reddit, «[i BOC] stanno finendo di lavorare su alcuni dischi e poi andranno in produzione, ma la produzione dei vinili è bloccata e lavora a un ritmo molto più lento del normale: potrebbero volerci 3 mesi, 6 mesi, 9 mesi in più».
Non ci è dato sapere quanto, dietro le parole di MyOfficeMcNulty, sia vero, ma fa abbastanza ridere il fatto che racconti di incontrare uno dei fratelli regolarmente per strada, mentre si fa gli affari suoi, piazzandogli ogni tanto domande che, a occhio, vorrebbero fare altri milioni di fan in tutto il mondo.
Stanno (davvero) tornando i Moderat
Beh, in questo caso abbiamo più spazio per dire che sì, con certezza, ci sarà un nuovo disco dei Moderat. Il trio formato da Modeselektor e Apparat ha infatti annunciato un ritorno live a sorpresa, per mezzo social: una clip di 30 secondi su Instagram, condita da visual che rivela la scritta “MORE D4TA” (da leggere presumibilmente come “MODERAT 4”).
Per il momento sono stati annunciati sei show per il 2022, tra cui Roma e il Sónar a Giugno e il Parkbühne Wuhlheide di Berlino a Settembre. Quest’ultima non sarebbe scelta casuale: è la stessa venue dell’ultimo show prima dell’annunciato hiatus, e cadrebbe esattamente a quattro anni e un giorno di distanza, il 3 Settembre 2022.
Intervallo
Onestamente, da entrambi (per quanto diversi) i ritorni non so esattamente cosa aspettarmi: i Moderat hanno compiuto un ciclo pressoché perfetto, e la mia è che i progetti da “separati” stessero perdendo un po’ di mordente rispetto a quanto il trio facesse insieme. Certamente possono ancora fare ottime cose: su Noisey a fine 2017 ne parlavo come una storia che avrebbe avuto le possibilità di dirci ancora altro: “tre album e un altro infinito tour dopo, raccontare la filosofia dell’impero Moderat significa fotografare un importante capitolo dell'elettronica moderna”.
È altrettanto vero che adesso, a distanza di anni e col progetto riesumato all’improvviso, qualcosa di veramente nuovo un po’ me lo aspetto.
Chissà come andrà.
Da un ritorno dei Boards of Canada, invece, è lecito aspettarsi molto a priori, ma il fatto che ci troviamo ancora ben dentro il territorio dell’ipotetico non da molto spazio a vere fantasie: Mike Sandison e Marcus Eoin si sono fermati nel 2013 con Tomorrow’s Harvest, senza apparenti motivi, né dichiarazioni di sorta sul loro futuro, dopo l’ennesimo ritorno a sorpresa. Ed è stato come se, in fondo, ce lo aspettassimo: per alcuni avevano semplicemente detto tutto, non gli interessa scrivere nuova musica, né servirebbe davvero a noi ascoltarla.
Devo dire che queste indiscrezioni, onestamente, mi hanno fatto pendere verso questa versione delle cose, piuttosto che su quella del fanboy elettrizzato dall’idea di ascoltare cose nuove. Sia perché ho un po’ il timore che otto anni siano uno spazio di tempo ormai troppo lungo per capire che intenzioni abbia un artista, sia perché, di fatto, non so quanto ci sia ancora bisogno dei Boards of Canada oggi.
Nel senso: ascoltare quanto hanno fatto— che sia nel 2013 o nel 2021—significa già vivere dentro la loro musica. Ovvero un po’ l’idea alla base del loro progetto, da sempre: ispirati da qualcosa senza tempo nel fare qualcosa che lo diventi.
Ok, su questo magari ci torniamo più in là—chissà se con un disco nuovo di cui parlare.
È nato un master per studiare i Beatles
Ebbene sì. Lanciato a Settembre dal dipartimento di musica dell’Università di Liverpool, il programma «mira a riformulare ed estendere il discorso contemporaneo sui Beatles al di là dell'ambito storico e musicologico in un contesto più ampio e robusto del Ventunesimo secolo».
Se vi interessa specializzarvi in Beatlesismo, le application per The Beatles: Music Industry and Heritage MA aprono a breve. Il corso invece partirà a Settembre 2022.
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A. Needham, James Blake: 'I didn't make this record for Chris Moyles, I'm in the dubstep scene', The Guardian, 2011.
A. Horner, A decade of Drukqs: Aphex Twin’s opus, ten years on, Drowned In Sound, 2011.
A. Petridis, James Blake: James Blake - review, The Guardian, 2011.