Tra le cose che mi hanno molto arricchito personalmente, quest’anno, c’è sicuramente Jazz:Re:Found, andato in scena a inizio Settembre nel Monferrato, in Piemonte. Tra la bellezza degli angoli e dei posti, nello stage itinerante che è il borgo di Cella Monte, la musica ha assunto una dimensione sonora e immersiva troppo diversa dall’usuale, per non rimanere come un ricordo positivamente differente.
È in quell’occasione che ho per la prima volta visto dal vivo Marta Del Grandi, cantautrice dall’eclettismo vocale e dall’istinto, anche in questo caso, positivamente differente. Tra le persone incontrate lungo il viaggio e i colori osservati durante la sua evoluzione personale, quell’esibizione era un delicato teaser di quanto aveva scritto negli anni, e che stava arrivando a portare i suoi frutti, maturando sotto forma di prima volta.
Until We Fossilize è il suo album di debutto, e attraversa confini, storie e miti guidati da una penna capace di vagare, tra lande contemporanee e soprattutto passati fiabeschi rimodellati in musica. E dato che ho avuto l’occasione di rivederla suonare a Londra, durante il suo tour in UK, le ho chiesto cosa c’è dietro le tappe che ha messo insieme, come tasselli essenziali, nella sua prima creatura da vera artista cosciente di scrivere per la sua arte.
Prima di (ri)ascoltare il tuo live credevo di essermi fatto un’idea abbastanza precisa, sulla tua musica: una scrittura che tesse tele metaforiche ed immagini evocative, tra natura e miti. Pian piano ho capito che ciascuna di quelle sfumature svela molto di più di quello che c’è in superficie, diventando, senza altri giri di parole, più semplice da spiegare: dietro ogni racconto c’è la tua, di storia.
È vero: sono io a cercare le storie, ma poi il vero scopo è nascondermi in loro. È stato così durante tutto il processo creativo di questo album, profondamente legato a un racconto a metà tra il poetico e il fantastico, anche se—come dici—ogni tassello ha delle anime che parlano di dettagli e strade diverse del mio percorso.
C’è una narrativa che passa dalla mitologia (in Amethyst) che è la mia infanzia, la storia geologica del pianeta (Swim To Me) che è il mio passato di viaggi in Asia, c’è un racconto su animali in via d’estinzione e ci sono qui e lì trasposizioni di persone vicine a me. Nel mezzo, anche fugaci incontri con la letteratura: Lullaby Firefly è influenzata da una storia presente in Amori Senza Amore, una raccolta di novelle di Pirandello.
Un emblema concreto di questo incrocio di storie dentro e fuori la tua vita credo sia Shy Heart: è stata descritta come culla di nature indie un po’ sopite, ma credo che in realtà abbia il pregio di avere un’atmosfera proprio fuori dal tempo e dal concetto di genere. E come in gran parte dell’album, è difficile (ed è bello sia difficile) dire di che epoca si sta raccontando e da che epoca venga la musica che si sente.
Mi fa piacere ti dia questa sensazione, anche perché di fatto è il brano che, più di tutti, è stato ricondotto all’indie folk o ad influenze affini. In realtà il processo è stato molto naturale: una melodia che senza ausilio di strutture particolarmente incalzanti costruisce il percorso, da sé.
È vero, forse ha il ritornello più facilmente riconoscibile, e questo può ingannare. Ma se penso a riferimenti di quel mondo, come Big Thief o Fleet Foxes, è evidente quanto questo album sia in realtà l’opposto: non c’è mai una vera ritmica a trainare il brano, l’atmosfera favorisce molto più la linea vocale, il basso è spesso molto indietro, nel mix—e così via.
A proposito di identificazione, credo che Totally Fine, che arriva in coda al disco, si sganci in maniera netta da quello che avevi detto—e da come lo avevi detto—fino a quel momento dell’album. Però, a differenza dell’anima “americana che fa il verso al folk”, anche qui, credo si possa trovare molto altro: esce fuori una sorprendente sfumatura latina, Mediterranea della tua storia.
Credo anch’io sia così: a livello di suono è stato fondamentale l’apporto e l’intuizione di Shahzad Ismaily, che ha mixato il disco. In Totally Fine, in particolare, sentiva una natura bossa nova da far uscire fuori, un’idea decisamente più calda e colorata rispetto all’atmosfera algida e scura che avevo io in mente, prima. Il giro di piano che ho scritto dopo il testo si è trasformato in qualcosa che ricordava Rodrigo Amarante, ma appunto: è avvenuto tutto molto spontaneamente, e per questo si annoda naturalmente a metà tra più mondi.
Ci sono davvero legata, anche perché a differenza degli altri è una storia autentica, scritta su di me. Nella maggior parte dei testi mi baso su finzione, racconto: sono io, a mimetizzarmi dietro la canzone.
Swim To Me è l’animo più romantico, la storia di due continenti che si separano e si promettono di nuotare l’uno verso l’altro. Ritorna quel forte intreccio narrativo dai colori a volte fantasy, a volte molto intensi, ma è essenzialmente un ricordo dei tuoi anni in Asia.
Sì, è la coscienza poetica ma insieme, in effetti, anche quella più allegra di questo album. Nel 2018, quando vivevo in Nepal, abbiamo fatto uno spettacolo tematico sugli animali in via d’estinzione con Fossick Project, che curavo con Cecilia Valagussa. Feci una serie di ricerche sulle origini geologiche di Kathmandu, sulla creazione dell’Eurasia e sull’Himalaya, dove si trovano ancora fossili riconducibili alla separazione dei continenti. Il ritornello ha delle sfumature un po’ Disney, il che fa molto ridere.
Mi ha ricordato un aneddoto che raccontò St. Vincent in un’intervista, sul processo di scrittura di Actor: sosteneva che il produttore—John Congleton—salvò diversi arrangiamenti del disco, stravolgendone la natura. Presi singolarmente erano brani di assoluto valore, ma avevano quell’anima bucolica e trasognante, “da cartone animato”, che avrebbe restituito un’immagine artificiosa di ciò che voleva realmente comunicare.
Sei stata fuori dall’Italia per quasi dieci anni, in un incredibile viaggio tra Belgio, Nepal, Cina e India. Quanto c’è dei posti, delle persone, dei viaggi e delle esperienze del tuo passato in questo disco rispetto all’espressione artistica più consapevole, di una Marta del Grandi che scrive oggi per la sua carriera?
Direi che c’è molto di più della prima, indubbiamente. E il motivo è apparentemente semplice: pensare di fare una carriera come artista solista, dedicarci tutto il tempo e tutte le energie e sperare di farne una professione… sì, mi è sempre sembrato qualcosa di veramente lontano, astratto da raggiungere.
Prima di iniziare la mia fuga dall’Europa avevo un altro progetto come band, Marta Rosa, e già lì il sentore era che stare dietro a una cosa del genere fosse davvero un’impresa: il più delle volte sembra un tragitto più grande di te e della stessa tua passione. Per questo era—e a tratti è rimasta—una scrittura molto impaurita dal futuro. C’è sempre stata una grande voglia di rendere quel mondo più mio, ma c’è tanto lavoro mentale da fare, per dargli vita propria.
Dopo avermi sentita cantare, Damien Rice venne da me in maniera molto decisa, chiedendomi: «Cosa stai facendo? Che obiettivi hai nella vita?»
A un certo punto di questo percorso tra Europa, Asia e poi di nuovo Europa hai incontrato Damien Rice. Mi racconti com’è successo?
Era il Febbraio 2019, mi aveva scritto su Instagram, dicendo semplicemente che di ritorno dal tour in Australia voleva fermarsi in India, dove io mi trovavo in quel periodo. Non ho idea di come mi abbia trovata, mi ha spiegato in modo molto naturale che trovava una certa connessione con la mia musica, immediatamente dopo avermi scoperto. Così mi propose di organizzare concerti informali, raccolti, in cui io aprivo la sua performance—e in un’occasione anche a duettare, su My Favourite Faded Fantasy.
Dopo avermi sentita dal vivo venne da me in maniera molto decisa: «Cosa stai facendo? Che obiettivi hai nella vita?». Io continuavo a fare la vaga, dicendo che stavo lavorando a un disco, ma subito incalzò con una cosa del tipo «Mh… stai lavorando a un disco o NON stai lavorando a un disco?».
Avevo capito che bissavo su una risposta fin troppo equilibrata, non troppo convinta dei progetti e delle cose che stavo scrivendo. E mi spronò in maniera molto naturale, facendomi i complimenti ma insistendo sul fatto che dovevo portare quella dimensione in un lavoro davvero prodotto, da far sentire a tutti.
Chiaramente un incontro che ha cambiato le sorti del tuo percorso.
Assolutamente sì, una cosa impensabile per una cresciuta col suo mito sin dal liceo—cosa che mi fece trasferire per un periodo in Irlanda, luogo di adulazione per lui e per i Cranberries, tra le altre cose. Quando ho finito di scrivere il disco l’ho ringraziato: è stato fondamentale per arrivare a concepire quello che c’era dentro. Lui, contento, rispose «Alla fine hai fatto prima di me: devo ancora finire il mio!».
A Ottobre è tornato in Italia, voleva venire alla data di presentazione del disco, a Milano. Prima di quell’esibizione, il pomeriggio era a casa mia, a costringermi a scrivere un pezzo nuovo. E la sera è venuto con tutta la band in macchina, al concerto: è stata come la chiusura di un incredibile cerchio.
L’obiettivo della mia scrittura è quello di non ricordarti nessuno. Perché mai dovrei scrivere per ricordarti qualcuno?
In mezzo a tutti questi incroci mi è venuto in mente Kurt Vonnegut, quando parla del potere curativo della musica (in If This Isn't Nice, What Isn't Nice?). Diceva che non importa quanto male succederà nel mondo, la musica sarà ancora “perfettamente meravigliosa” (e soprattutto, l’unica cosa che ci salverà). Quanto cercherai, attraverso la musica che scriverai in futuro, qualcosa in grado di salvarti?
Da quando è uscito il disco ho avuto poco tempo per capire cosa stesse succedendo, per quanto credo che fermarsi a farlo sia una cosa che devi proteggere. E per quanto sia istintivo scrivere e mantenersi costante nel farlo, il vero obiettivo credo sarà capire che stimoli, influenze e nuove espressioni mi restituiranno quello che cerco dopo questo capitolo, sia a livello narrativo che, appunto, più strettamente personale.
L’obiettivo della mia scrittura è quello di non ricordarti nessuno. Perché mai dovrei scrivere per ricordarti qualcuno? Essere tornata a suonare dal vivo, poi, mi ha espressamente fatto capire questa urgenza: quando sono su un palco sento sempre più la necessità di dare emozioni dirette, intense, che raccontino di me in maniera molto netta.
E quanto, di quello che fin qui ha segnato il tuo modo di intendere la musica, cambierà di Marta Del Grandi? Sempre che alla fine ti serva davvero, cambiare qualcosa.
Ci sono delle direzioni sonore che vorrei rielaborare e fare mie, intrecciarle con un racconto che immagino ancora più autentico. Che possa parlare di cosa sono, dove sono adesso. In questo senso mi viene in mente l’album di Ex:Re, del 2018: defilandosi per un attimo dal progetto Daughter è stata capace di mettere insieme pensieri struggenti, taglienti e soprattutto molto personali, in un flusso di coscienza incredibilmente potente.
E se da un lato credo sia naturale la musica dei nostri tempi sia figli di contesti socio-culturali ed esperienze analoghe, che si appoggia a background e ascendenti con una dimensione somigliante, dall’altro la mia ambizione è figlia anche del voler creare un’espressione che sì, consideri tutti questi fattori, ma in qualche modo sia anche in grado di aggirarli.
Adesso vorrei prendermi del tempo per scavare più in profondità, capire ancora da più vicino cosa è giusto far venire fuori. Sono aspirazioni che cambieranno in assoluto il mio modo di scrivere? Non so dirtelo, ancora.
Quello che so per certo è che adesso non posso più nascondermi.
Until We Fossilize è uscito su Fire Records il 5 Novembre.
Se non metti L’Ultimo
Qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter, a volte anche un po’ di fatti miei.
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Dancing My Way Through Grief
In un lungo e intenso pezzo per Resident Advisor, la giornalista Katie Thomas ha scritto della perdita della madre durante il primo lockdown, in un periodo in cui avevamo perso anche il dancefloor e ogni sorta di esperienza legata alla musica.
E di quanto avesse bisogno di riavere contatto con quella realtà, come terapia necessaria per limare il suo dolore.
«Per tutta la vita, ci sono state due certezze: che la musica e il ballo mi fanno stare bene, e che mia madre poteva aiutarmi a dare un senso a qualsiasi dilemma. Quando è morta, durante l'isolamento, entrambi i miei rimedi più fidati erano fuori portata.
Sia che abbiate sperimentato la morte di qualcuno che amate, o che stiate navigando nella perdita di una connessione umana o che stiate lottando perché il vostro sostentamento si è fermato, tutti noi abbiamo sperimentato una forma di perdita a causa del COVID. Siamo stati tutti tagliati fuori dal mondo, per un po’».