Ripensare il passato
Mai Mai Mai affronta ancora la dimensione del tempo, ma stavolta tra neo–tradizione, oscurità folk ed etnomusicologia contemporanea
Un suono impossessato dalle ombre di ciò che è stato, costretto a rivivere ricordi, radici e cicli per espiare la sua condanna: Rimorso segna il ritorno Mai Mai Mai, che nel suo nuovo capitolo estremizza folk sperimentale, cupi colori Mediterranei ed etnomusicologia. Conosciuto per la capacità di intrecciare folklore, echi industrial e musica elettronica miasmatica, l'artista romano si è avvicinato alla scrittura del nuovo album con l'intento di ricreare gli spiriti di storie irrisolte, alzando l'asticella della sua consueta viandanza occulta tra riti e cultura del profondo sud.
Nell’inversione di quel déjà-vu che è esplorare i confini della tradizione, la sua ricerca etnica e sonica trova una terza via per ripensare il racconto del passato. Di fatto, superandolo: Rimorso è un nuovo ciclo tribale che trasforma l'assenza in presenza, allontanando la nostalgia della consumazione tra roventi acque scure e fantasmi che danzano cerimoniosamente. Nell'album, il suono della memoria si muove tra la visione di futuro perduto e una convinta spinta verso una neo–tradizione, arricchendosi nell’incontro con il maestro Lino Capra Vaccina, Maria Violenza, NZIRIA, Vera Di Lecce e l'ensemble Ars Ludi, nei diversi featuring del disco.
Ho fatto due chiacchiere con Toni Cutrone, per mettere un po’ di ordine in mezzo a tutti i significati che Mai Mai Mai ha fotografato nella sua nuova avventura, a caccia di paradossi temporali, geografie del ricordo e sentimento futuro.
Rimorso arriva dopo qualche anno di silenzio, con pandemie e isolazionismo che hanno allungato e alimentato la distopia dei nostri tempi. Per certi versi è un disco che sembra chiudere alcuni discorsi, rispetto quanto il tuo identikit sonoro ha raccontato fin’ora, ma c’è anche tanto nuovo, nel passato che continui a voler svelare. Dove ti ha portato questa nuova ricerca?
Diciamo che mi sono fatto trasportare dal flusso di nuovi mari, oltre che dalla voglia di indagare nuovamente nella memoria, qualcosa di insito nel progetto Mai Mai Mai da quando è nato. Se prima però era un racconto delle mie esperienze e di quei viaggi intorno alla tradizione del Mediterraneo, più avanti mi sono mosso verso una dimensione quasi del tutto trans-personale delle cose, di un folklore e un vissuto condiviso. E condiviso nel presente. In particolare, scavare nel passato è stato in questo caso tanto divertente quanto necessario: gli spiriti da cui mi sono fatto impossessare sono adesso cronaca di una nuova tradizione, che ha bisogno di emergere diversamente.
La tua ricerca è sempre stata abbastanza lineare, in questo senso. Che differenze ci sono, allora, rispetto i tuoi lavori meno recenti?
C’è la volontà di parlare di storia e costume in senso collettivo, che non riguarda solo la mia sfera personale, se penso ad esempio a quanto avevo fatto con la trilogia del Mediterraneo. Un primo passo lo avevo già fatto nel 2019, con Nel Sud, che era un’immersione nel folklore più oscuro del meridione con l’apporto etnografico del cinema di Gianni De Seta, Cecilia Mangini e Luigi Di Gianni, tra gli altri. Rimorso però si spinge ancora più in là, di questa barriera. Mi ha fatto pensare «basta parlare della tradizione come qualcosa al passato», «basta trattarlo come una salma, un morto da riesumare».
Anche musicalmente, ho pensato «basta usare field recordings fantasma e registrazioni degli anni Cinquanta o Sessanta», e da qui la scelta di collaborare con persone che quest’attitudine della tradizione—specie quella del sud—la fanno vivere nel modo più attuale e coerente possibile. Per quanto questo disco sia in un certo senso “educato”, il mio approccio verso folklore e derive etniche rimane sempre abbastanza estremo: ho catapultato in questa visione anche chi ha collaborato al progetto, e sono felice che il risultato abbia portato a idee giuste.
Difatti c’è una fitta schiera di featuring che diversifica le coordinate della storia, ma allo stesso tempo trascina verso tutti questi aspetti indagatori: in che modo hai scelto gli artisti che avresti coinvolto in questo capitolo?
Ha giocato molto il fatto che sono abbastanza lontano dal mondo di chi deve fare scelte “obbligate” o “consigliate”, sono stato io in prima linea a valutare le collaborazioni in cui vedevo una mia naturale evoluzione, che è ciò che il disco recita. Uno dei primi che avevo in mente, in questo senso, è stato Lino Capra Vaccina, che conosco dai tempi in cui organizzavo il Thalassa Festival al DalVerme a Roma e con cui è nata una bellissima amicizia, scaturita dall’idea di coinvolgerlo nell’edizione del 2015. Oltre a lui, con cui il connubio artistico proseguirà in una residency esclusiva dal vivo, durante Ortigia Sound System a fine Luglio, ciascun nome rappresentava la chiave per tradurre al meglio nuovi riti e cerimoniali.
E con prese del tutto verticali, in questo senso: tra la forma-canzone sperimentale nelle collaborazioni con NZIRIA e Vera Di Lecce al racconto di ricordi che diventano futuro, con Maria Violenza, Cosimo Damiano e l’Ars Ludi ensemble.
Sì, principalmente perché pur immaginando di aver trovato un certo equilibrio in ciò che facevo ho sempre avuto l’esigenza di cambiare, sperimentare e anche rovinare, se necessario, per poi trasformare tutto in forma nuova. Nel Sud mi aveva dato la sensazione di spartiacque “definitorio”, credevo non ci fosse altro che potesse sintetizzare meglio la mia visione. Invece no, ho cercato e trovato gli stimoli per descrivere una parte inedita dello stesso percorso, con logiche e idee che vanno verso direzioni differenti. E in più sì: e con l’ausilio di artisti che si sono dimostrati perfetti per tradurre questa traiettoria.
Peraltro, mi sembra tu abbia sempre avuto un link quasi inconscio con quello che era stato lasciato dalla scena sperimentale anni Settanta, che in diversi casi questa trama del ricordo che diventa contemporaneità la esplorava: probabilmente l’Italian Occult Psychedelia—di cui Mai Mai Mai era certamente tra i protagonisti—era una sorta di testimonianza postuma di quanto sarebbe potuto accadere dopo, quando quella sperimentazione (e insieme le sue derive, tra prog, new wave ed ambient) si è un po’ fermata.
Sì, credo ci sia stata una linea sottile che recuperava un po’ di non detto da quel mondo, evolvendosi poi in una dimensione fatta di riti, superstizioni e memorie in rovina.
E in sostanza, una volta per tutte, stavolta il passato è tirato in ballo per essere esorcizzato.
Diciamo che anziché giocare con la parte arcaica, il folklore rituale—e tutti i nessi che ci sono in mezzo—ho deciso di farlo con una storia meridionale contemporanea, come Secondo Coro Delle Lavandaie con Maria Violenza o l’Arabia catturata da Youmna Saba, in Nostalgia. È una chiave che, di nuovo, fa rivivere una dimensione lontana nel tempo ma che si nutre al presente, al risvolto contemporaneo della stessa. In questo modo lotta con l’idea di un passato fine a sé stesso, che si cita e ci tormenta ma che rimane bloccato lì, dove ormai non può emergere.
A proposito di tradizione meridionale, c’è sicuramente un riferimento esplicito a De Martino e La Terra del Rimorso. Solo che qui anziché essere «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito», la tua ricerca diventa un’etnomusicologia dei rituali contemporanei.
Sì, il riferimento ovviamente c’è. In particolare, del rimorso ho voluto esplorare un significato più laterale, che porta alla costruzione del termine stesso: «essere morsi nuovamente», e cioè essere morsi dal passato come trauma. La tradizione riprende vita, ma lo fa totalmente mutata rispetto all’idea di costume, storia e percorsi affini al suo decorso fantasmatico: è uno zombie che rivive nel presente, che prova a mordere per farti reagire, mentre lo devi affrontare. Come il morso della taranta, nel racconto di De Martino e della sua spedizione etnografica in Salento.
Come in una sceneggiatura che si rispetti, ascoltando questo disco ci si accorge molto presto di ciò che farà da sfondo alle vicende della storia: l’evento scatenante lo possiamo già scorgere con il Secondo Coro in testa alla tracklist, ma più ti addentri e più il percorso si approfondisce. Quasi un paradosso del ricordo.
Sì, l’ho immaginato come in quattro capitoli—che il formato in vinile tenterà di tradurre ancora meglio—, una sorta di percorso che inizia con vere canzoni e poi l’ingresso lungo un flusso temporale che porta a sbiadire completamente le cose, finendo per farle svanire. Sia Secondo Coro che Musica Nova, appena all’inizio del disco, sono in tutto e per tutto contemporaneità, cioè gli anni Settanta de La Gatta Cenerentola di De Simone da un lato, Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò dall’altro.
Man mano ho cercato di creare questa sensazione di movimento dal personale all’inconscio collettivo: dalla contemporaneità, appunto, si va a ritroso nel tempo, allontanandosi da una vera comprensione. Nelle ultime tracce, tra registrazioni di canti polifonici arbëreshë e lo spettro di un antico che non conosci, ci si separa volutamente dai significati: Antiche Memorie con Lino Capra Vaccina, che chiude l’album, racconta l’atterraggio in uno spazio che non è più passato né futuro.
E che se è presente lo è in maniera atemporale, solo quando lo stai vivendo. Credo che in tutto questo ci sia il senso di rimorso che volevo esplorare.
Rimorso è uscito il 20 Maggio su Maple Death Records.
Se non metti L’Ultimo
Come sempre, qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter.
E anche oggi parecchio in versione consiglipergliascolti.
Un anno di Deep Listening
A Year of Deep Listening è una celebrazione dell’eredità della leggendaria Pauline Oliveros, scomparsa nel 2016, realizzata dal Center for Deep Listening che opera al Rensselaer Polytechnic Institute, nello stato di New York. L’evento è partito il 30 Maggio (data del suo compleanno) e durerà 365 giorni, con un testo al giorno, sul sito del progetto e sui social del centro, fino al 30 Maggio 2023.
Dentro, piccole perle tra storia e interattività sonora come questa.
(sempre un botto di) Cose che ho ascoltato recentemente
Anche oggi con la collaborazione di Giulia Massara, che ha curato la recensione degli album di Marina Herlop, MACE e Real Lies qui sotto.
Marina Herlop è sicuramente tra le produttrici più raffinate ed eclettiche dell’elettronica contemporanea: che sia uno strumento o una voce, riesce a rendere tutto interessante, stimolando l’ascolto verso elaborate sofisticazioni. Eleganza e stonata ribellione attribuiscono alla compositrice Catalana uno stile tutto suo, che si traduce in una ricezione esteticamente straordinaria. Su PAN aveva già esordito con i suoi primi Nanook (2016) e Babasha (2018), con cui torna per il suo terzo capitolo, Pripyat, celebrando una crescita stilistica straordinaria. Una moltiplicazione digitale del suono di un unico strumento, l’ingresso in un corridoio di specchi per giocare dentro immagini speculari e perdersi nel suono di un’eco che si ribalta, si arrotola, si allinea imprevedibilmente in continuo movimento.
Urla e orientali assonanze riflettono nell’album la maestosità dell’invisibile e l’impercettibile: un gioco dimensionale che non declina in interpretazioni adducibili ad una logica umana, ma che si costruisce sul piano psicologico nell’abbandono della realtà corporale. abans abans è un’introduzione in perfetta sincronia tra suono che si adagia su sé stesso e voce liquida, morbida, trasparente, sintesi di una sensazionale complessità dissociata da forme o lineature classiche. A rievocare i giri su una giostra o il percorso tra linee labirintiche di un posto inesistente, vige la legge del contrappasso, tra perfezione accademica, ricerca creativa e contrapposizioni esecutive. Non accade niente di scontato, in Pripyat, perché qualcosa rimane sempre slacciato da regole retoriche e determinato dalla curiosità di nuove scoperte: un percorso che la Herlop vuole indefinito e infinito, come una chiocciola che ipnotizza nei suoi scudi vorticosi, ma che stringe nelle sicurezze femminile dalla calma animalesca.
— Giulia Massara
Sono usciti (e continuano ad uscire) dischi di progetti Italiani di assoluto valore, negli ultimi mesi (e da queste parti cerco di coprirne il più possibile, ormai da un annetto). Uno dei più recenti è quello dei 72-HOUR POST FIGHT, un nome ormai pronto per il salto giusto: il collettivo formato da Palazzi D’Oriente e Fight Pausa con Andrea Dissimile e Adalberto Valsecchi ha debuttato con l’omonimo album nel 2019, dove già una certa sciamaneria proto–jazz si mescolava a elettronica percussiva e granuli di post-rock, ricordano i tempi migliori (e più spericolati) dei Mount Kimbie (che con buona pace loro, qualche passetto a vuoto credo poi lo abbiano fatto, ahimè). In NON-BACKGROUND MUSIC (ancora per La Tempesta Dischi, etichetta ormai attentissima a nomi che portano queste contaminazioni verso livelli internazionali), il continuum sonoro della storia è quanto mai riuscito, se non parecchio migliorato.
Tra insediamenti quartomondisti che rimandano ad un Jon Hassell proiettato nel futuro o il più contemporaneo jazz underground della Los Angeles istrionica raccontata da Sam Gendel, il disco si contorce tra influenze ricche di pulsazioni, in quaranta minuti in cui il sassofono diventa attore di una gospel drone ed i mirati innesti vocali si lasciano andare ad un compendio di sano (e alto) eclettismo. A uno a cui scoccia fare certe liste anzitempo peserà dirlo (se siete qui da un po’ lo avrete capito), ma probabilmente sarà tra gli album più interessanti che ascolteremo quest’anno.
MACE è ormai tra i produttori Italiani più riconosciuti per la sua spiccatissima sensibilità musicale, per un gusto particolare e raffinato ma traducibile dai più, posto di riguardo tra i nomi più influenti del settore. Dagli esordi hip-hop all’elettronica e le collaborazioni nella scena underground, dopo la consacrazione con l’acclamatissimo OBE, lo scorso anno, possiamo dire che è andato OLTRE. L’album disegna ritmi incessanti, che viaggiano in un labirintico intro ed extra—dentro e fuori, nell’armonia che attraversa i luoghi dell’anima per aprirsi a posti di una natura che accoglie, in consequenzialità. La tempra nordeuropea del suono è scandito da logiche di incontro e scontro, che sembrano alludere a lunghe attese e poi potenti esplosioni, distruzione e ricostruzione: l’imprevedibilità di uno tsunami al centro di ogni brano, preceduto e seguito da una “calma delirante”, eterea, ferma tra vita e non vita.
breakthrough suite ༆ apre le porte al salotto in cui passeremo il resto del nostro ascolto: la disposizione di un “arredamento” in continua evoluzione, un universo—multiverso, mille volti di un solo volto, convivenza e connivenza tra natura e spirito, ordine e confusione. Un passaggio, dall’aperitivo al dolce, versando piccoli intimi pensieri, nel calice dell’euforia di un post cena, continuando a danzare ad un ritmo sempre più coinvolgente dal moto perpetuo ๛. I dodici brani sembrano interagire fra loro, in un ordine verticale che dall’alto scende al punto più basso, ubbidendo ad una legge gravitazionale. Catturati da una rilevante dose di inquieta dinamicità, martellante, affascinante, intrigante, estatiche rapsodie di luci si alternano scene surreali, in un’atmosfera di incosciente consapevolezza mentre fuori si fa buio, e tutto sembra vivere una nuova dimensione.
— Giulia Massara
Nel 2015 The Guardian descriveva la loro musica come synthpop che torna al futuro, fatta di notti intere trascorse a ballare e lunghi viaggi in macchina per tornare in periferia. Kev Kharase e Patrick King nel frattempo hanno continuato a giocare con la dimensione della notte e del tempo, rendendosi complici di cambiamenti e crescita: Real Lies è passato da trio a duo, dopo l’uscita di scena di Tom Watson, ma ancora più che durante gli esordi l’immersione si è completata verso sonorità elettroniche tipicamente britanniche, tra gli echi di una delle capitali più affascinanti a far da costante sfondo alla storia.
Lad Ash è anche questo, un secondo capitolo che segna maturità e ricordi, fatti dell’espressione romantica di un processo artisticamente frastagliato durante gli anni. La loro musica misura l’educazione all’addio, con una sensibilità spiccatamente malinconica—a tratti verso il ricordo della stessa Londra dei loro esordi—che si riversa come tramite l’abilità un paroliere e la guida in una dimensione astrattissima. La loquacità del “sentimento” che torna protagonista senza nascondersi ma spogliandosi di architetture estetiche, presentandosi nella sua immensa semplicità tra iniziale curiosità, conoscenza e dolore. Perfetta combinazione tra sophomore pop di stampo nordico ed un’elettronica che sprofonda nei tratti dalla ballad, l’ascolto svilisce le contraddizioni di chi l’amore lo racconta, ma che si istruisce di sapienza e beata solitudine. Dimenticandosi i romanticissimi contrasti di chi non si incastra, tra colori in hungover di euforia e malinconica resa, Lad Ash è un sentiero che attraversa ogni sua fase con cura, nutrendola.
— Giulia Massara