Le acque placide di un lago, la cima innevata del monte Fuji ed il filo sottile tra la vita e la morte: il cinema di Takeshi Kitano è contrasto, glorificazione della forza poetica dell’antitesi, scaltrezza romantica che diventa cinismo fatalista. Figlio di una storia che viaggia dentro e fuori un’eterna dicotomia di emozioni—con un forte richiamo all’immaginario del regista giapponese ad avvolgersi nell’esaltante contrasto tra amore e sangue, sullo sfondo—è Kuni, atteso album di Linda Feki che è anche, per LNDFK, il vero e proprio debutto.
Con all’attivo già diversi EP e una lunga serie di esperienze di livello internazionale—tra cui il palco del Primavera Sound—, la prova del nove per l’artista Italo-Tunisina era cimentarsi in un progetto “maturo”, che racchiudesse tutto ciò che il suo mondo aveva fin qui anticipato con grande pathos, spaziando dalle temperature moderne del nu-soul ad accattivanti virate jazz contemporanee, come nei capitoli Lust Blue o Pocket P Song di qualche anno fa.
«La chiave è stata poter dire “questa è la musica di LNDFK”, “questo è il suo sound”. Volevo far emergere anche i miei riferimenti riferimenti tra arte visiva, cinema, letteratura, oltre la musica stessa».
L’impressione che si ha ascoltando Kuni è che si abbia a che fare con tutto-tranne-che-un-album-di-debutto. Diciamo che, per chi la conosceva da prima, le aspettative erano alte, sì, ma sono state ripagate (e anzi: forse superate). Semplicemente, arrivare con questa naturalezza al primo album non è per niente facile—e arrivarci con un’impronta precisa e mai famelica delle tue idee fa scattare un cortocircuito.
Al centro di questo passaggio troviamo fiore e fuoco, delicatezza e violenza, poesia e realismo, purificazione e distruzione a prendersi la scena: una lunga e articolata serie di opposti dialoganti sono infatti la tela del disco, un viaggio invertito a cavallo tra le delicate sfumature del suo pianeta.
Rileggendo un’intervista che le feci anni fa su Noisey (nel 2018, per l’uscita di Pocket P Song) alcuni punti di contatto e di continuità, ce li ho trovati, nel suo netto percorso fino ad un’ormai evidente maturità artistica: «Ho ricercato il contrasto tra due entità volutamente opposte, sovrapponendo un contenuto crudo e diretto ad una forma più delicata e a un sound che mi piace definire “mellow”», raccontava.
Da qui lo step successivo, cioè la scelta molto ragionata per raccontare il suo mondo attraverso un album, il passaggio talvolta più delicato per un artista. Eppure questa forma pensante del suo linguaggio continua a riflettersi nella musica che scrive, in maniera naturale e senza scalfirne una progressione pura.
«Di Kitano ammiro la sua capacità di porsi sulla linea di confine tra la vita e la morte, una cosa molto presente nell’arte giapponese. Poi il lavoro di Joe Hisaishi, sulla colonna sonora del film, mi ha ricordato qualcosa che corrisponde perfettamente al senso della bellezza. O almeno, a quello che significa per me».
E a proposito dei diversi riferimenti di cui si compone il disco, alcuni sono cruciali: la continua dicotomia Eros e Thanatos—manifesto anche del suono che incontriamo durante le dieci tappe del viaggio—, Carmelo Bene («La morte l'amor-te la mort, pronunciandolo alla francese: la morte è la vita») e un immaginario giapponese catartico: tutti gli elementi e le ispirazioni di Kuni hanno origine viva, che si muove ondivaga. E sì, le atmosfere risulteranno talvolta molto diverse, tra loro, ma anche in questo caso diventerà il miglior pregio del disco—anziché sembrare straniante.
E poi un omaggio protagonista, quasi la guida della storia, quello di cui parlavamo in apertura: Hana-bi (e le due Hana-bi del disco), trama che ruota proprio attorna alla folgorazione per l’omonimo film del 1997 di Kitano, con colonna sonora firmata da Joe Hisaishi. Una pellicola che, ancora, si basa fortemente sui concetti di violenza e bellezza, gioco e disincanto, e un riferimento che LNDFK ha curato particolarmente, attorcigliandolo alle vene da cui la musica di Kuni pulsa sangue.
Da Hana-bi, T. Kitano,1997.
In un certo senso la chiave è sin da subito riscontrabile nell’abbraccio a tante LNDFK, che oltre alla fattura musicale è espressa anche dal modo in cui si sposta la sua voce in questo palcoscenico: compare a volte in maniera centellinata, come se dialogasse con i brani, altre è molto più energica e li doma. E sembra decida di farlo nei punti e nei luoghi più importanti, senza mai sovrastare il vernacolo di scena.
Tutto questo ci spiega in maniera fin troppo semplice—arrivati ad un buon numero di ascolti dell’album—che di lei non c’è mai stata una versione chiusa nei topici compartimenti stagni di genere, e l’evidenza diventa totale pescando tra le scelte fatte per le collaborazioni nel disco, che hanno arricchito un fiume in piena di ispirate allusioni sonore.
«Ho creato una moodboard, che dava una sorta di ordine delle ispirazioni: da Rothko alla pittrice minimalista Agnes Martin, da Sanguineti all’espressionismo astratto, era importante riuscissi a visualizzare cosa stesse succedendo grazie a loro. Altro riferimento è la fotografia di Nobuyoshi Araki, che con Takeshi Kitano condivide la filosofia Eros e Thanatos».
Perché sì, i featuring, anche in questo caso, provengono da pianeti abbastanza diversi ma sono molto simili nelle idee per cui sono stati scelti: da Asa Chang al pianista americano Jason Lindner (che qualche hanno fa suonava su Blackstar di un certo David Bowie), fino ai rapper Chester Watson e Pink Siifu—questi ultimi nei due singoli estratti poco prima dell’uscita dell’album.
Pensandoci bene, è ancora più complesso smistare tante nature diverse lasciando uno sfondo di autenticità per tutta la durata del tragitto—questione che anche Dario Bass, produttore e da sempre co-collaboratore del progetto LNDFK, ha veicolato anche a questo giro in maniera certosina per far andare tutti i tasselli lì dove dovevano (e potevano trovare sfogo felice).
«Per Chester Watson e Pink Siifu è valsa molto la storia di Don’t Know I’m Dead or Not e How Do We Know We’re Alive, i pezzi in cui cantano: sono due brani speculari e fortemente simbolici, connessi al fenomeno della depersonalizzazione. Per me era molto importante rendere la tematica universale, trovando artisti che con la loro voce potessero rendere cruciali le sfumature dei due brani».
Il brano di chiusura del disco (se mi stacco da te, mi strappo tutto:) omaggia Edoardo Sanguineti e si intreccia con La speranza di un condannato a morte di Joan Miró. E soprattutto, si interrompe improvvisamente, intorno al minuto.
È la traccia più particolare, forse la meno in evidenza del lotto, ma che racchiude altrettanti disegni e schizzi di ispirata libertà artistica, omaggiando Moon River e scoprendo un sollievo alla stasi sperimentale attorno a cui l’arrangiamento si avvolge: Colazione da Tiffany, ma nello spazio. Che è quasi un naturale decorso, dopo una lunga escursione tra eccitazione, turbamento, spiritualità, danza.
Kuni è un album che dall’esigenza cinematica di Kitano scompone in maniera delicata gli eventi, polarizzando l’attenzione su un garbuglio cosmico di possibilità, facendoci incontrare in un posto diverso ad ogni tappa. Si muove tra scat vocali e poi riscopre il jazz, mentre devìa i colori del soul verso albe elettroniche.
È un nuovo (annunciato) inizio e sì, è decisamente la musica che parla di tutte le anime di LNDFK.
Kuni è uscito l’11 febbraio su Bastard Jazz, licenziato in Italia da La Tempesta.
Le foto sono di Mattia Giordano.
Se non metti L’Ultimo
Qui dentro ci sono cose e curiosità extra rispetto al topic della newsletter, a volte anche un po’ di fatti miei.
Oggi in versione boh.
FOTO
Il produttore e musicista Ennio Colaci è da poco approdato su New Interplanetary Melodies, etichetta di forte impronta sperimentale libera. FOTO, il suo album, è composto da scatti musicali e un paesaggio sonoro ricco di emozioni contrastanti, che scorrono tra pause riflessive e momenti di eccitazione incontrollata, ruotando sul concetto del viaggio e delle istantanee del movimento.
Insomma: belle cose, fidatevi—if you wish. Al momento, uno dei progetti più interessanti dell’anno.
Se tutto è folk
Su Pitchfork, Philip Sherburne ha condotto un’interessante indagine sul cosiddetto recupero della “materia folk” nella musica moderna, specie a latitudini elettroniche e sperimentali: «incorporando elementi che vanno dai flauti Maya ai cori medievali fino ad antiche pentole di retaggio mediterrano, i produttori contemporanei stanno guardando al passato per aiutare a sbloccare il presente».
Sherburne parla degli eterni legami che la musica continua ad avere col suono del passato, specie quello che rifiuta di rimanere bloccato da qualche parte nelle dimenticate tradizioni popolari. Un discorso che si aprirebbe oggi a moltissimi esempi (qui, fra gli altri: John Talabot, Debit e persino Kate Bush), arrivando a fare considerazioni anche su quanto di questo recupero della tradizione—in realtà—stiamo già ampiamente sentendo nelle classifiche pop mondiali, con alcuni Paesi molto centrali, su questa mappa.
Magari ci torniamo più avanti.
In loop
Sì, ogni tanto anch’io ascolto musica Italiana. Intesa per musica scritta e cantata in Italiano, di quella uscita dopo gli anni Ottanta. È raro, ma succede. E recentemente mi è successo con Nei sogni nessuno è monogamo, un manifesto della maturità artistica di Dargen D’Amico che è anche un ritorno sulle scene dopo una lunga pausa, in cui la sua penna è stata perlopiù al servizio di altri artisti.
È un album fatto di una scrittura nostalgica ma consapevole (al centro di questo disco in particolare, ma al centro dei suoi versi un po’ da sempre), che sembra accettare l’inizio di una vita adulta pur guardando indietro con una smorfia malinconica e sospesa.
Se il pezzo di Sanremo rimane la punta più geniale, Ma Noi (che ho in loop ormai da qualche settimana) racchiude invece i residui di quel ricordo agrodolce che è l’adolescenza, tra leggerezza e rimorsi, visto ormai da una chiara distanza.
File under: Stavo Pensando a Te di Fibra, se fosse stata scritta da Dargen.